Un po' di chiarezza sui Bes
I BES vengono gettati nell’arena senza aver prima fornito ai lavoratori della scuola gli adeguati strumenti per renderli una risorsa reale, poiché purtroppo il continuo taglio degli investimenti per la scuola pubblica non ci condanna soltanto a soggiornare in edifici non a norma ma anche a non poter svolgere appieno e serenamente la nostra funzione di educatori.
Edoardo Acotto
Remember me, special needs (Placebo)
Bisogni Educativi Speciali è l’etichetta italiana con cui l’ultimo Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ha recepito l’orientamento europeo sugli Special Educational Needs (SEN). Nell’Unione Europea non c’è una normativa comune, ma da anni i SEN fanno parte del repertorio concettuale degli esperti educativi. Per esempio, nell’incipit di un rapporto della Commissione europea del 2005, giocando sull’ambiguità di “speciale” (che infatti qualcuno propone di sostituire con “specifico”) si legge: “Come il DNA ogni individuo è unico. L’essere unico rende speciale quell’individuo. La parola “speciale” viene usata per descrivere qualcosa di relativo a un particolare individuo, gruppo o ambiente. “Speciale” significa anche differente dal normale. Normale si usa in riferimento a ciò che è ordinario, ciò che ci si aspetta”.
L’etichetta nostrana è omofona del nome di un dio minore del pantheon egizio, spesso rappresentato come un vecchio nano con le gambe storte, ornato di piume di struzzo e ha rapidamente attecchito nel gergo scolastico (per altro già ben saturo di sigle, a testimonianza della crescente inesorabile tecnicizzazione del mondo della scuola).
Ma il significato dei BES non è ovvio, dato il contesto scolastico italiano attuale. Prima di essere applicato in modo intuitivo o burocratico, il concetto di “bisogni educativi speciali” andrebbe pensato e analizzato molto bene.
Nella scuola italiana i BES sono stati introdotti con una Direttiva Ministeriale del ministro Profumo (27/12/2012). Il ministro Carrozza ha poi diramato una successiva circolare ministeriale (n.8 del 6/03/2013) nella quale precisava (con qualche vaghezza) in che modo dovrebbe avvenire l’implementazione del dispositivo normativo.
Profumo era considerato un “tecnico”, etichetta ambigua che non sembra adeguata all’aggressività rivolta verso i propri stessi dipendenti. Per chi non lo ricordasse, è il ministro dell’infelice frase sul bastone e la carota: “Il Paese va allenato. Dobbiamo usare un po’ di bastone e un po’ di carota e qualche volta dobbiamo utilizzare un po’ di più il bastone e un po’ meno la carota. In altri momenti bisogna dare più carote, ma mai troppe”. Citazione, non so quanto consapevole, da Winston Churchill, che la usò per chiarire il suo punto di vista circa il modo in cui trattare il popolo italiano e ripresa da Benito Mussolini in una serie di articoli sul Corriere della Sera (che furono poi raccolti nel libro, edito da Mondadori nel 1944, “Storia di un anno. Il tempo del bastone e della carota”).
L’ex ministro Mariagrazia Carrozza, esperta mondiale di meccatronica e già direttrice della Scuola Superiore di studi universitari e di perfezionamento Sant’Anna, è stato un ministro politico, espressione del PD, pur continuando la breve serie dei ministri dotati di expertise (a differenza di Mariastella Gelmini che poco o niente sembrava avere a che fare con il suo ministero). Da lei qualcuno poteva forse aspettarsi una sensibilità “di sinistra” riguardo alla scuola, ma suppongo che quel qualcuno sia rimasto deluso dai fatti degli ultimi mesi: per fare solo due esempi, secondo il ministro Carrozza il liceo di quattro anni andrebbe benissimo, così come il meccanismo della cooptazione per l’arruolamento dei docenti universitari, introdotto dalla riforma Gelmini e sostenuto anche da molti professori universitari di centrosinistra (perché affaticarsi a fare concorsi truccati quando si sa che la cooptazione di fatto già avviene?).
I BES, dunque, sono stati introdotti da due ministri che a conti fatti non sembrano avere molto a cuore il sistema educativo pubblico così come consegnatoci dalla Costituzione e già gravemente danneggiato dalle scelte politiche bipartisan degli ultimi vent’anni.
La Direttiva Profumo rinvia all’elaborazione teorica dell’Organizzazione Mondiale della Sanità relativa al “funzionamento” degli esseri umani: “[...] è rilevante l’apporto, anche sul piano culturale, del modello diagnostico ICF (International Classification of Functioning) dell’OMS, che considera la persona nella sua totalità, in una prospettiva bio-psico-sociale. Fondandosi sul profilo di funzionamento e sull’analisi del contesto, il modello ICF consente di individuare i Bisogni Educativi Speciali (BES) dell’alunno prescindendo da preclusive tipizzazioni.” Un tentativo di coniugare il tecnicismo di una razionalizzazione mondiale con il contrasto alle stigmatizzazioni di chi si trovi in situazione di speciale bisogno educativo.
La Direttiva Ministeriale di Profumo in pratica ha esteso a tutti gli studenti in difficoltà il diritto alla personalizzazione dell’apprendimento. L’area dei Bisogni Educativi Speciali comprende infatti: “svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse”.
La Direttiva riconosce che esistono tipi diversi di disagio, oltre a quelli già classificati come “diversabilità” (Ianes) e come “Disturbi Specifici dell’Apprendimento” (DSA: dislessie, discalculie, disgrafie, disortografie).
Da questo punto di vista il testo della Direttiva pone mano a un problema reale: la natura pervasivamente sociopolitica del disagio non può essere ignorata dalla scuola. Ogni classe è un microcosmo che riflette più o meno imperfettamente il vasto mondo sociale, attualmente in forte crisi, come a tutti noto. Che la scuola provi a prendersi cura del disagio dei giovani cittadini istituzionalmente e non solo in maniera volontaristica e asistematica, come da sempre avviene per la grande buona volontà degli insegnanti, a me sembra, in linea teorica, un fatto positivo. Potrebbe essere una potenziale apertura della scuola verso la società e le sue tensioni, che troppo spesso filtrano all’interno in maniera asettica, come se per davvero ci fosse una separazione tra dentro e fuori, incluso ed escluso.
Con la nuova normativa BES diventa responsabilità degli insegnanti e del consiglio di classe individuare, a tutela dell’alunna o dell’alunno in situazione di disagio, la possibilità di tener conto dei “livelli minimi attesi per le competenze in uscita”, per ciascun ciclo di studi (primo biennio, secondo biennio, quinto anno). Questo non significa poter “promuovere tutti” (ricorrente paura di certi reazionari ingenui) ma significa evitare che un giovane che patisca qualche tipo di disagio debba essere scolasticamente penalizzato, senza concedergli nessuna attenuante specifica.
Faccio un esempio tratto dalla mia esperienza personale: a metà ottobre il coordinatore di una classe mi parla (come “funzione strumentale” mi occupo dei BES nella mia scuola) di una alunna con un certificato di bisogno educativo speciale. Il collega mi riferisce la sua scarsa speranza che la ragazza possa farcela in quella sezione tecnica della nostra scuola. Durante il primo colloquio con la madre, scopro che alle medie la ragazza era abituata a usare un piccolo computer portatile, per ovviare alla sua leggera disortografia: eppure fino a quel momento nessun insegnante della nostra scuola aveva pensato di chiederle se avesse quell’abitudine compensativa. Ci si accingeva già a “riorientare” la ragazza verso un’altra scuola, non certo per cattiveria, ma perché a scuola si ragiona spesso sulla base di una semplice logica binaria: è bravo/non è bravo, ce la fa/non ce la fa, è da promuovere/è da bocciare. Il concetto di inclusività potrebbe forse mettere in questione questa logica rigida: ma perché ciò avvenga, uno strumento in più come la normativa BES può essere utile.
I BES però sono stati recepiti abbastanza male: molti insegnanti li hanno identificati come un potenziale bastone, non certo come una carota. Si è temuto un carico supplementare di lavoro unito a un espediente burocratico per diminuire gli insegnanti di sostegno (è questa la prima interpretazione che si è levata da parte sindacale e su certi siti specializzati). E il rischio del carico di lavoro supplementare c’è tutto. Mi è capitato di partecipare a un consiglio di classe straordinario convocato perché mancava l’accordo tra insegnanti e famiglia riguardo alla compilazione di un piano didattico personalizzato (PDP), e ho constatato che le due ore e mezza (non retribuite) spese per cercare di venire incontro alle richieste di una famiglia (in questo caso mancavano i certificati medici) sono state vissute abbastanza negativamente da alcuni colleghi, in particolare da quelli con numerose classi e numerosi allievi. È molto netta la percezione che se i casi di BES si moltiplicassero si rischierebbero molti straordinari non retribuiti, e dall’utilità non unanimemente riconosciuta. Questo è un problema oggettivo, che rischia di bloccare tutto il dispositivo BES.
Di questa novità normativa, poi, alunne, alunni e famiglie sembrano sapere poco. Del resto, per gli utenti, la normativa BES dovrebbe manifestarsi come semplice e positivo surplus di tutele. Ma credo che sia nell’interesse di tutti coloro che hanno a che fare con la scuola conoscere bene questo nuova realtà: insisto che in certi casi la normativa BES potrebbe essere un’utile arma difensiva contro talune inerzie di un’istituzione in crisi come la scuola.
I BES sarebbero un indubbio bene se venissero effettivamente usati per aumentare l’inclusività della scuola. Sulla carta sembrano progettati per questo, in modo abbastanza astratto e ideologico. Onestamente, però, non so ancora se sarà possibile trasformarli in uno strumento efficace praticandoli da una posizione militante, eventualmente diffidente verso le buone intenzioni meccatronico-ministeriali. Alla fine di quest’anno potremo tirare le somme dell’accaduto.
I BES possono anche essere un rischio: come ogni rivoluzionario sa, il fallimento è sempre in agguato. Con il prodigioso (e misterioso) aumento dei disturbi specifici e aspecifici dell’apprendimento, nei prossimi anni alcune scuole per ingrandirsi potrebbero accettare di buon grado alunni con disturbi dell’apprendimento; altre potrebbero invece scegliere una politica di “pulizia”. Anche nella scuola pubblica statale, infatti, le scelte dei dirigenti possono essere molto diverse, grazie all’Autonomia scolastica. La presenza di molti alunni con BES in certe scuole potrebbe anche diventare uno stigma divisivo: qualcuno non vorrà iscriversi in una scuola con troppi bisogni speciali.
C’è ovviamente anche una terza possibilità, e cioè che i BES non abbiano nessuna efficacia, non servano ad aumentare l’inclusività e lascino tutto così com’è, aumentando soltanto il numero degli scartafacci inutili. In questo caso l’omonimia col dio egizio, piccolo e brutto ma ornato di piume di struzzo, risulterebbe tristemente azzeccata.
Il punto centrale da considerare è che l’introduzione dei BES avviene in un contesto scolastico gravemente degradato, a causa della riforma Gelmini ma non soltanto. Ritengo infatti che ci sia un fil rouge abbastanza evidente che collega il finanziamento della scuola privata avviato nel 1998 dal ministro di centrosinistra Luigi Berlinguer, il programma berlusconiano delle tre “I” per la scuola (inglese, informatica e impresa), la riforma Gelmini e la tecnicizzazione della politica scolastica propria degli ultimi due governi. La criticità della situazione si manifesta in modo molto concreto e abbastanza drammatico: non sono affatto rare le cosiddette “classi pollaio” con più di trenta alunni, tra i quali magari, per semplice statistica, due o tre con DSA o BES, un diversamente abile e qualche straniero. E poi, ovviamente, i ragazzi possono manifestare molti altri disagi, psicologici, sociali ed economici, non facilmente formalizzabili. Si aggiunga che una simile classe-polveriera, sempre per semplice statistica, viene spesso affidata a un insegnante – più spesso una insegnante – cinquantenne o ultracinquantenne, sovente sull’orlo del burn out anche soltanto per semplici ragioni anagrafiche e socioeconomiche (ho visto diverse colleghi con genitori anziani e malati faticare per fornire loro un’assistenza ormai quasi insostenibile sul piano economico).
I BES vengono dunque gettati nell’arena senza aver prima fornito ai lavoratori della scuola gli adeguati strumenti per renderli una risorsa reale, poiché purtroppo il continuo taglio degli investimenti per la scuola pubblica non ci condanna soltanto a soggiornare in edifici non a norma (qualche crollo è stato rovinoso) ma anche a non poter svolgere appieno e serenamente la nostra funzione di educatori.
Confesso che all’inizio dell’anno ero più ottimista: poi ho visto diversi casi di bisogni educativi per i quali sembra molto difficile trovare le risorse all’interno dell’attuale scuola depauperata di tutto. Le difficoltà si aggrovigliano, talvolta i genitori (che ne hanno facoltà, poiché il BES non certificato si dichiara di comune accordo con la famiglia, eventualmente su sua ragionevole e documentata richiesta) fanno richieste assurde. Ecco infatti apparire un’ultima “nota protocollare” del Ministro, qualche tempo fa (22/11/2013), che ha tutta l’aria di uno scudo innalzato a protezione delle scuole e degli insegnanti, forse assalite da richieste impossibili. Vi si chiarisce (o meglio ripete) che è facoltà del consiglio di classe avviare un piano didattico personalizzato. Come a dire che nessuno può pretendere nulla. Ma che tutela supplementare è una tutela discrezionale? E se ci si affida al buon senso degli insegnanti che cosa cambia rispetto a prima? Un bello gliommero!
Nonostante tutto, e nonostante la stragrande maggioranza dei miei colleghi e amici sia ipercritica, io continuo a (voler) pensare che i BES possano davvero essere un’opportunità. Non vedo infatti che cosa dovrebbe trattenere gli insegnanti, almeno quelli che non rinunciano all’utopia di una trasformazione rivoluzionaria, da attuarsi giorno dopo giorno, dall’impegnarsi per far funzionare questo dispositivo normativo in modo creativo e positivo. Mentre la scuola inizia a imbarcare acqua, insomma, non vedo perché dovremmo rinunciare a estendere il dominio della lotta. La scuola come nave che affonda non è un’immagine rassicurante, lo so bene. Ma purtroppo è il sentire di molti colleghi, e non di rado anche il mio. L’inclusività può essere una scialuppa di salvataggio? Lo voglio sperare, con quel famoso ottimismo della volontà: è un ideale che parla di una scuola aperta, forse addirittura di una futura società aperta (al tu-tutti di Aldo Capitini).
Bisognosi di tutta la società, dentro e fuori la scuola, unitevi!
Questo articolo è uscito sul numero 19 de “Gli asini”, gennaio/febbraio 2014.