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Un passo avanti ma va salvata la formazione

Giorgio Israel

10/09/2013
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Il Messaggero



Le somme stanziate dal governo per l’istruzione possono sembrare poca cosa rispetto alla rilevanza dei problemi. Ma non è così.Il premier Letta e il ministro Carrozza hanno fatto una scelta coraggiosa dedicando un Consiglio dei ministri ai problemi dell’istruzione: finalmente si riconosce che questo è uno dei settori più importanti, se non il più importante, per il futuro del Paese. Inoltre, non ci troviamo di fronte ai soliti tagli e ridimensionamenti ma a scelte di sviluppo, sia per il diritto allo studio, sia per gli organici, che per il caro libri, il wi-fi nelle scuole e altri provvedimenti significativi. Su tutto svetta la decisione coraggiosa di cancellare il “bonus maturità”, non dall’anno prossimo ma da subito.
Il nuovo interesse per l’istruzione è un primo passo positivo che deve inaugurare una fase nuova: la scelta di una linea chiara sull’istruzione che vogliamo. La questione è troppo importante per indulgere nel consueto errore di mettere tutto nelle mani di qualche esperto di fiducia o in quelle alquanto invadenti e dirigiste dell’amministrazione ministeriale. Abbiamo seguito troppi percorsi contraddittori, nell’arco di qualche decennio. È ora di fermarsi a riflettere e discutere, affinché su queste basi il ministro compia scelte che riflettano opinioni diffuse nel Paese soprattutto tra i principali attori del sistema, gli insegnanti.
La questione del “bonus maturità” indica questa esigenza di chiarimento di fondo. Fin dagli inizi, il ministro Carrozza disse che l’uso di sistemi automatici numerici nella valutazione – nell’università o nella scuola – pur non dovendo essere del tutto proscritto, andava ripensato. In coerenza, ha abolito l’algoritmo di “rinormalizzazione” del “bonus”. Ora la selezione di chi potrà accedere alle facoltà a numero chiuso sarà fatta direttamente e senza pregiudizi. Ma è evidente che la selezione di un futuro medico – una missione che mette in gioco tante capacità e attitudini – non può essere fatta con qualche decina di crocette. D’altra parte veniamo da una sequenza interminabile di disastri nel campo della selezione con test perché la materia non vada ripensata da cima a fondo. In pochi anni ci siamo buttati a capofitto nella numerologia e nel testing. Esistono opinioni diverse e anche opposte in materia: è giunta l’ora di tenerne conto e di pervenire, con calma e ponderazione, a soluzioni meditate e ragionevoli.
Questa problematica fa parte di quella generale della valutazione: un tema su cui si susseguono da anni sperimentazioni costose e di scarso successo. Il punto è che tutti parlano di “meritocrazia” e poi ognuno la intende a modo suo. La faccenda sembra banale come una sentenza del “filosofo” Catalano di “Quelli della notte”: i migliori devono avere i voti più alti e i peggiori i più bassi… Già, ma voto di cosa? Dipende dall’idea che si ha del ruolo della scuola. Per alcuni la scuola è un sistema d’istruzione – quale che sia il metodo didattico – per altri è un sistema che aiuta a saper vivere. Per i primi forma competenze disciplinari e lavorative, per i secondi forma le “competenze della vita”. Ma se la formazione di conoscenze storiche, matematiche, ecc. diventa un frammento di un’attività enorme che coinvolge tutti i problemi – sociali, medici, psicologici, ecc. – dell’individuo, la scuola diventa altra cosa e così la valutazione.
Nell’ottica del centro socio-assistenziale, allora sì, bocciare diventa un atto estremo. Ma se un problema di disagio può valere come un rendimento scolastico altissimo, parlare di “meritocrazia” diventa vano. Un ospedale non assegna voti agli assistiti. D’altra parte, che si voglia trasformare la scuola in centro assistenziale risulta dalla nuova normativa dei Bes (Bisogni educativi speciali) di cui abbiamo parlato qui giorni or sono. Se il ministro avesse idea del disagio che sta provocando questa normativa tra tanti insegnanti, ne sospenderebbe l’attuazione con un atto di coraggio simile a quello del “bonus maturità”.
Un’altra questione cruciale su cui occorre uscire dagli slogan è quella del rapporto scuola-lavoro. Il ministro dice che nessuno deve arrivare ai 25 anni senza aver provato un lavoro. Forse, ma non necessariamente. Può essere corretto per certi futuri ingegneri. Può essere giusto chiedere a un laureando in materie letterarie di fare uno stage in un centro bibliografico, in uno scavo archeologico o in un museo. Ma spedirlo (magari con un fisico teorico o un biologo) per qualche mese in una ditta di piastrelle, che senso ha? A meno che sotto sotto non vi sia una visione ideologica: il lavoro in azienda è una cosa seria mentre lo studio è una perdita di tempo, un’ozio. Certo, per gli antichi greci, “scuola” voleva dire “ozio”, ma non nel nostro senso dispregiativo, bensì come “sospensione” delle pratiche comuni per dedicare un tempo della propria vita a problemi di fondo da cui dipendono tutti gli altri. Anche se questa visione è lontana, noi crediamo che lo studio sia un’attività fondamentale, impegnativa, molto dura (e per questo degna di essere premiata) e da cui dipendono tante altre, inclusa la formazione della capacità di lavorare e di “faticare”.
Non è vero che in azienda si fanno le cose serie e a scuola quelle poco serie. A meno che non si voglia proprio ridurre la scuola a un luogo di intrattenimento in cui farsi risolvere le difficoltà individuali (costruire le “competenze della vita”) in modo indolore. Preoccupa assai l’avanzare di questa visione in modo surrettizio, per via amministrativa. Anche su questo nodo si gioca il futuro del Paese.

               


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