Un colpo mortale alla scienza e al futuro dei giovani
La spending review toccherà in modo pesante gli istitutidi ricerca italiani all’avanguardia nel mondo In più gli studenti pagheranno più tasse
Pietro Greco
F ujtevenne!». Andate via, finché siete in tempo, diceva trent’anni fa Eduardo De Filippo ai giovani napoletani che gli chiedevano cosa fare in una città devastata dal (dopo) terremoto e da una rapidissima deindustrializzazione. Napoli sta rinunciando al suo futuro. E l’unica prospettiva per voi giovani napoletani è andare via. «Fujtevenne!». Sembra dire Fernando Ferroni, coraggioso presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, ai giovani ricercatori che hanno appena contribuito a intercettare il «bosone di Higgs» – una delle scoperte più importanti degli ultimi decenni in fisica – e che, quasi in premio, hanno subito un drastico taglio al bilancio del loro Ente e, di conseguenza, alle loro ricerche. L’Italia sta rinunciando al suo futuro. E l’unica prospettiva per voi giovani italiani è andare via. Che la spending review del governo abbia colpito duro il settore della ricerca (ma anche quello dell’università) sono i numeri a dirlo. L’Istituto Nazionale di Ricerca sugli Alimenti e la Nutrizione (INRAN), vigilato dal ministero dell’agricoltura, è stato soppresso. Non si conosce, allo stato, quale sarà la sorte dei singoli ricercatori (che intanto, per protesta, sono saliti sui tetti). Mentre i 12 enti vigilati dal ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca hanno subito tagli ai fondi ordinari che, per il 2012, ammonteranno a 19 milioni di euro su un bilancio complessivo che ammonta a oltre 1.400 milioni di euro. Non sembra molto: una sforbiciata inferiore all’1,4%. Ma occorre tenere in conto che interviene a metà anno. Mentre i programmi di ricerca sono già in corso. E molte spese già effettuate. I tagli saranno maggiori nel 2013 e nel 2014, quando saliranno a 102 milioni per anno. Una diminuzione dei fondi ordinari pari al 7,3% nel 2013 e al 7,8% nel 2014. Se si considera che una parte notevole del bilancio di quasi tutti gli enti pubblici di ricerca è costituita dagli stipendi dei ricercatori (in genere, piuttosto anziani) ed è dunque incomprimibile, il risultato è chiaro: verranno sacrificati gli investimenti in ricerca e i giovani con contratto precario. L’Infn, quello del “bosone di Higgs”, vedrà ridotti in particolare il suo budget ordinario di oltre 9 milioni di euro (3,8%) nel 2012 e di 24,3 milioni (10,1%) nel 2013 e nel 2014. E questo per il semplice motivo che è stato così bravo da raggiungere un’alta percentuale di spesa in ricerca e da minimizzare la spesa per gli stipendi. La (doppia) virtù – scientifica e amministrativa – è stata punita. Il governo ha per ora sospeso ogni decisione su eventuali altre soppressioni, con accorpamento dei ricercatori presso altri istituti. Ma restano in pre-allarme l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), i cui ricercatori per numero e qualità delle pubblicazioni scientifiche risultano i migliori d’Italia e tra i più bravi al mondo, l’a Stazione Zoologica “Anton Dohrn” di Napoli (il più antico centro di biologia marina al mondo), l’Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica Sperimentale (OGS) di Trieste. Ora la soppressione con accorpamento di questi Istituti difficilmente farebbe risparmiare anche un solo euro. Anzi, come spiega Giovanni Bignami, presidente dell’Inaf, in un editoriale pubblicato su La Stampa, quasi certamente produrrebbe costi aggiuntivi. In ogni caso il rischio che vadano distrutte competenze scientifiche e messi in crisi progetti di ricerca (per lo più internazionali) è elevatissimo. Una punizione non meritata per chi lavora in queste Enti e produce nuova conoscenza. Aggiungiamo a questi il taglio ulteriore di ben 200 milioni di euro per le università (che costituisce la rete primaria di ricerca nel nostro paese), che – come ricordava Walter Tocci ieri su l’Unità – si aggiunge ai 400 milioni già decisi dal governo Berlusconi e ai 150 milioni di tagli per borse di studio e attività ricerca. Per recuperare questi soldi, le università hanno una sola possibilità: raddoppiare le tasse di iscrizione. Scaricare sugli studenti il peso dei tagli. Una simile situazione è grave in sé. E dovrebbe scatenare un dibattito serio e appassionato nel Paese. A ogni livello: politico, sociale e culturale. Ma c’è di più. Il combinato disposto di queste scelte dimostra che neppure il governo dei tecnici ha compreso qual è la causa profonda del declino economico e non solo economico dell’Italia: un declino che dura senza soluzione di continuità da vent’anni. Non abbiamo compreso che nell’era della «nuova globalizzazione» non c’è più posto per la vecchia specializzazione produttiva dell’Italia. Che non possiamo più pensare anche solo di galleggiare continuando a produrre con le nostre industrie beni a media e bassa tecnologia. Perché da quasi vent’anni, appunto, abbiamo perso i due vecchi fattori competitivi: il basso costo relativo del lavoro e una moneta debole, svalutabile a piacere. Oggi abbiamo un costo relativo del lavoro alto rispetto alla gran parte dei paesi a economia emergente e in via di sviluppo. E abbiamo l’euro: una moneta che, nonostante tutto, è molto forte. E comunque non svalutabile a piacere. In questa situazione il declino può essere solo momentaneamente rallentato, non certamente invertito, adottando il “dumping sociale” teorizzato da molti liberisti: ovvero comprimendo il costo del lavoro e il sistema di welfare. Se vogliamo dare ai giovani italiani – gli adulti di domani – una piccola chance occorre che l’Italia impari a competere nei settori dell’industria, dell’agricoltura e dei servizi ad alto tasso di conoscenza aggiunto. Ma per fare questo occorre investire. Soprattutto nei settori della ricerca e dell’alta formazione. È quello che ha fatto la Germania solo un anno fa: a fronte di tagli al bilancio pubblico per 80 miliardi di euro, ha aumentato gli investimenti in ricerca e università di 13 miliardi di euro. È quello che sta facendo la Corea del Sud, che in appena trent’anni è passata da un numero di laureati nella fascia di età giovanile (tra i 25 e i 34 anni) inferiore al 10% nel 1980 a una percentuale monstre del 63% nel 2010.