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Troppe parole, pochi fatti

di Mila Spicola

13/07/2013
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l'Unità

«AVREI PREFERENZA DI NO», RISPOSE BARTLEBY LO SCRIVANO PROTAGONISTA di un noto racconto, e così vorrei far io quando mi si chiede di commentare i rapporti delle rilevazioni nazionali. Potrei aprire nel mio pc la cartella sui rapporti dello scorso anno, di quello precedente e dell’anno prima per ritrovarmi sostanzialmente di fronte a simili risultati: più che buoni al nord, medi al centro e pessimi in alcune regioni del sud. Sicilia? Ultima. Ogni anno riempiamo per qualche giorno giornali e palinsesti sulla retorica del divario e poi si ricomincia. Tutto uguale. Posso cavarmela col dire che le prove Invalsi non vanno bene, come dicono non solo molti docenti ma anche molti esponenti della ricerca educativa, per motivi diversi? No. Perché, fatte meglio o anche per come sono, sarebbero utili e necessarie. O posso scegliere una delle opposte narrazioni sulla scuola concentrate tutte sull’azione dei docenti? Il docente non all’altezza versus il docente eroe nella scuola di frontiera senza mezzi e senza riconoscimenti? Cosa aggiungerei di nuovo a vecchi giudizi e mai superati pregiudizi? Abbiamo montagne di dati raccolti negli ultimi anni, le rilevazioni nazionali e internazionali permettono non solo di fare comparazioni ma anche di tracciare un quadro di riflessioni approfondite in merito alle azioni. Ed è qua che casca l’asino, per usare un lessico strettamente scolastico. Questi dati comportano delle direzioni quasi obbligate di azioni che però, anno dopo anno, non vengono prese. Mi scusino gli esperti se sto brutalmente semplificando tematiche complesse, ma chi è esterno al mondo della scuola dovrà pur avere delle informazioni comprensibili per formarsi un’opinione. È universalmente assodato che la scuola, in qualità di sottosistema sociale, dipende dai contesti in cui opera. Già Dewey alla fine dell’800 diceva che l’educazione è frutto di tre pilastri: scuola, famiglia e società. Oggi aggiungiamone un quarto: la comunicazione (giornali, televisioni, web). Se i quattro pilastri sono concordi e di pari livello è più facile ottenere successi educativi, se sono discordi si creano gli «sprechi educativi», gli insuccessi scolastici, che, nei casi peggiori, diventano abbandoni. Già nell’Ottocento dunque avevano gli strumenti per spiegare i divari tra nord e sud rilevati oggi in Italia negli apprendimenti. Dovrebbero mettersi in atto delle politiche compensatorie agendo in modo multidimensionale e specifico lungo le direzioni che si ritengono più opportune: familiare, sociale o scolastico. In particolare, nel nostro Paese diversi studi rilevano come sia i risultati scolastici sia le scelte di indirizzo (in ciò comprendendo sia la mancata prosecuzione sia l’indirizzo di scuola secondaria) siano significativamente correlati con la situazione economica della famiglia. Mentre in altri Paesi il fattore condizionante sembra piuttosto il fattore culturale, nel nostro caso l’enfasi sembra spostarsi sulle caratteristiche economiche. In Sicilia il 65% delle famiglie ha difficoltà economiche e un bambino su due vive sotto la soglia di povertà. Correliamo i dati e il gioco è fatto. Rendetevi conto che la bella barzelletta di come son brave le scuole del nord a fronte di quei lavativi dei docenti del Sud è un bel placebo per non voler affrontare drammi ben più grandi. C’è da dire infatti che, rispetto ai divari osservati con altri indicatori - disoccupazione, povertà, livello di vita, criminalità - quelli rilevati negli apprendimenti dall’Invalsi sono inferiori, come sottolineato da Luca Bianchi dello Svimez, l’Istituto di ricerche sul Mezzogiorno. Cioè, la scuola tiene botta, per utilizzare un termine poco scientifico ma efficace. Tiene botta anche relativamente all’esempio di tenuta morale in quelle aree. Se mi metto nei panni del mio alunno tipo, preadolescente di scuola media nella periferia di Palermo, potrei affermare che meno male che ci sono questi dati per raccontarvi di tutto quello che io non ho rispetto al mio coetaneo del centro di Milano. Non per fare l’elenco delle rivendicazioni ma per indicare come e su cosa agire. O meglio, per costringervi ad agire. Se davvero deve essere la scuola a doversi prendere carico da sola anche degli altri tre pilastri, a me, ragazzino di Palermo, servono azioni reali e individuabili, che tutti conosciamo ma non mettiamo in atto, non le chiacchiere. Ad esempio: lo stesso tempo scuola del ragazzo lombardo (in Sicilia non esiste quasi il tempo pieno, che in Lombardia copre l’85% delle scuole), un impegno aggiuntivo nel recupero delle mie debolezze, frutto anche dell’assenza di conoscenze implicite (quelle che si formano fuori dalla scuola: cinema, sport, teatro, libri, ambiente favorevole alla cultura…), strutture edilizie adeguate, docenti formati ad agire sui bisogni speciali e via dicendo. Cominciamo ad agire per mutare i dati. Se no, Bartbley avrà preferenza di no.


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