Tornare fra i banchi
Patrizia Palanca dirige le scuole messe in ginocchio dalla scossa: «Da domani 50 docenti nelle tende»
In fondo all’inferno si azzardano miracoli. Sicché, nella valle del Tronto sconvolta dal terremoto, la scuola riapre domani, per chi vuole: due settimane prima del resto d’Italia, anche se qui le scuole sono macerie letali o gusci ballerini e almeno trecentoquaranta studenti sono rimasti senza aule. «Beh, ci mettiamo nelle tende: ad Arquata ho già individuato dove, adesso decidiamo dove anche per Acquasanta. Abbiamo mandato mail, è partito il tam tam tra funzionari e rappresentanti di classe, e su 65 maestri e professori cinquanta mi hanno detto subito di sì».
Ha una bella voce Patrizia Palanca, chiara e battagliera come il suo viso scolpito sotto una massa di capelli ancora corvini. Insegna qui da trentasei anni. Ricorda i ragazzi d’allora — «morti il 24 notte... amici, ormai, persone care» — in una sua Spoon River. E lavora senza sosta per i ragazzi di adesso, da dirigente scolastica. Ha la casa inagibile, dorme dove e come può, tiene le sue cose superstiti stipate nella Fiat grigia con cui si sposta testarda nei Comuni del suo distretto ascolano, a ricucire, rassicurare, riorganizzare. Le mamme le hanno detto che le vite dei figli «devono tornare a essere regolate dalla campanella d’entrata e uscita, non dalle scosse della terra...», che bimbi e ragazzini altrimenti s’avvitano nell’angoscia. E lei è scattata. È la sua vocazione, dice, del resto «sorrido per dare coraggio agli altri»; ma è anche il suo mestiere: dirige il comprensorio di Acquasanta, che dalla periferia di Ascoli arriva ad Arquata con almeno una dozzina di frazioni e una mezza dozzina di istituti racchiusi in un fazzoletto di chilometri. Ascoltarla sembra l’antidoto più potente contro questo virus di sussulti e orrore che ha trasformato le scuole in trappole mortali o simbolo di ruberie possibili e lavori fasulli: una medicina di fatti concreti, come un tema corretto o un problema di matematica da spiegare meglio, non scaricabarili o fumose procedure burocratiche; proprio mentre sta arrivando qui Stefania Giannini, la ministra. «Non è certo un anticipo programmato... Nelle tende faremo più che altro come al doposcuola, aiuteremo a finire i compiti ancora rimasti delle vacanze; e oltre agli insegnanti ci saranno gli psicologi: un sostegno». Già, soprattutto un modo per staccare da quest’aria di morte e di paura gli allievi che se la sentiranno di ricominciare, per dire loro che la normalità è ancora possibile: e la scuola è la sola normalità per un bambino, in fondo; oltre a essere la vita di Patrizia, che adesso combatte la battaglia più difficile d’una guerra personale contro il terremoto iniziata ad appena diciannove anni.
Era qui vicino, ad Amendola, epicentro del sisma del 1972, quando rimase sotto le macerie con sua madre: «Ci salvammo perché riuscii a trascinarla sotto un’architrave». Ha già assaggiato sulla pelle le scosse, nelle orecchie il rombo della terra impazzita, ma dice che stavolta è stato diverso. Il sisma, soltanto qui nell’Ascolano, ha messo in ginocchio la scuola d’infanzia di Montegallo, le elementari e medie di Acquasanta e di Arquata, con Venarotta e Rocca Fluvione ancora sotto verifica della Protezione civile. Ad Arquata, racconta, «i mattoni sono stati... sparati, gli architravi divelti come grissini». Sul muro del corridoio di destra della scuola media, quindici foto delle scolaresche dagli anni Ottanta a oggi descrivono sorrisi, speranze, innamoramenti, oggi esistenze spezzate. Adesso le foto sono attraversate da una crepa nel muro dove entra comodamente un braccio, il passato è tagliato in due.
Patrizia è qui da allora, dall’inizio. «Ma io questo non lo definisco neanche terremoto, non abbiamo avuto la sensazione di scosse sussultorie e ondulatorie, no: erano strappi, strattonate, era come stare su un foglio di carta percosso violentemente. Certo, fosse successo in periodo e orario scolastico, il rischio per i bambini sarebbe stato enorme. Certo, se penso che la scuola di Acquasanta, ora inagibile, era considerata sicura, devo dire che certi carotaggi sono stati fatti... a capocchia. Però, mi creda, questo terremoto non assomiglia a niente di ciò che abbiamo vissuto finora», dice, e subito la memoria le scolora la voce.
«Sa, ci sono vittime tra i miei ex alunni che erano diventati nonni, persone che dall’80 fanno parte della famiglia. Un mio ex alunno della famiglia Filotei che ha perso mamma, zio, fratello, veniva in classe da me nell’82-83. Sabrina, sì, Sabrina Cappelletti era una delle mie ragazze dell’85-86: mi ha detto che coi bambini e il marito ha dovuto camminare sopra i morti, arrampicandosi sulle macerie, le dicevano di “andare in piazza” ma la piazza non c’era più... Non si dà pace. Era un mio alunno il fratello di Giulio Celani... Sono morti cugini di tanti miei alunni, sa? Anche Giorgia, la piccola che s’è salvata, grazie a Dio, e Giulia, la sorellina che è morta, sono parenti dei Cappelli, dei Filotei, dei Celani. Loretta, la mia allieva Loretta Paradisi, è viva perché era a Venezia, meno male, ma i suoi parenti non ce l’hanno fatta... Vede, qui anche i sopravvissuti si portano dentro la morte».
Ma i bambini no, i bambini devono portarsi dentro la vita. Patrizia la prof lo sa, che la vita sta nei banchi, in un quaderno, in un sogno a occhi aperti, in una filastrocca scema, lì: anche se un po’ strizzata nel blu miracoloso d’un tendone.