Teoria e pratica dei sistemi complessi ovvero del dottorato di ricerca
di Nicola Casagli
Ho già scritto sui dottorati l’articolo “Perché i dottorati di ricerca italiani hanno i cicli?”.
Ritorno nuovamente sull’argomento perché mi pare che la strampalata burocrazia che soffoca il dottorato di ricerca sia in continuo aumento, generando perversi effetti di assuefazione e rassegnazione.
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Autunno. Tempo di commissioni di dottorati.
Da qualche anno i corsi di dottorato devono rispettare i bizzarri requisiti numerologici del Decreto MIUR “Regolamento recante modalità di accreditamento delle sedi e dei corsi di dottorato e criteri per la istituzione dei corsi di dottorato da parte degli enti accreditati”: ci deve essere un collegio composto da almeno 16 docenti, di cui non più di 4 ricercatori, appartenenti al “macrosettore” disciplinare di riferimento, con documentati risultati di ricerca di livello internazionale conseguiti nei 5 anni precedenti; ci deve essere altresì, per ogni ciclo di dottorati da attivare, la disponibilità di un numero medio di almeno 6 borse di studio per corso di dottorato attivato, fermo restando che per il singolo ciclo di dottorato tale disponibilità non può essere inferiore a 4.
16, 4, 5, 6, 4: una buona sequenza da giocare al lotto, scaturita dalla perversa fantasia dei burocrati dell’ANVUR e impossibile da rispettare per un “macrosettore” che tutto è fuorché “macro”, come le Scienze della Terra.
Eppure i docenti e ricercatori delle Scienze della Terra, decimati più di ogni altra area disciplinare dalle limitazioni sul turnover, ce l’avevano messa proprio tutta, dimostrando ragionevolezza e senso di responsabilità, quando si trattò di decidere i cosiddetti “macrosettori” all’interno dell’area disciplinare: scelsero infatti di fare un macrosettore unico coincidente con l’area 04 “Scienze della Terra”, in modo da evitare inutili barriere e semplificare la crescente burocrazia.
I nuovi criteri ministeriali però hanno condannato lo stesso a morte certa i dottorati in Scienze della Terra, soprattutto per l’incomprensibile requisito della media annua di 6 borse di studio. Le trovate ingegnose che i vari Atenei hanno escogitato per preservare la formazione dottorale nelle Geoscienze nelle diverse sedi dimostrano le incredibili risorse di fantasia e creatività dell’Università italiana, e meriterebbero di essere raccontate tutte, nella loro varietà e delirante burocrazia.
Mi limiterò a un esempio, per non annoiare troppo, parlando della mia Università e di quelle contigue.
Qui da noi la soluzione è stata quella di fare un dottorato regionale, mettendo insieme Firenze, Pisa e Siena, impresa storicamente complicatissima: ci riuscì solo Cosimo de’Medici, molti anni fa, con l’aiuto determinante dell’Imperatore Carlo V.
Infatti è nato subito il primo problema: a chi il coordinamento? Al capoluogo? alla città universitaria? all’Ateneo più piccolo? alla città con le torri più dritte? a quella con l’aeroporto più grande? oppure a quella con la corsa di cavalli più famosa? Impossibile mettersi d’accordo.
Idea! Facciamo a turno. Un ciclo per uno, da attivarsi in scrupolosa alternanza anno per anno. Ecco a cosa servivano i cicli! Come non capirlo prima! Se solo fossero esistiti ai tempi di Carlo V si sarebbe evitato tanto spargimento di sangue: si poteva semplicemente far nascere un Cicloducato di Toscana con capitale, corte e apparato amministrativo in perenne ciclica migrazione.
Invece oggi abbiamo solo prodotto un collegio di docenti per ciascun ciclo/anno, con un diverso coordinatore, con differenti regolamenti e programmi di studio, visto che questi rientrano nell’autonomia dei singoli Atenei.
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Quest’anno il bando del XXXI ciclo lo fa Firenze, garantendo 3 borse di studio, altre 6 le mette la Regione per incentivare la sinergia fra le sedi regionali, 3 posti sono senza borsa perché qualcuno – non si sa chi – ha deciso che i posti senza borsa devono essere limitati, proprio adesso che la norma nazionale aveva finalmente rimosso gli assurdi vincoli del rapporto borse/posti.
Contemporaneamente si convoca a Pisa il collegio del XXX ciclo per gli avanzamenti al I anno, a Siena quello del XXIX ciclo per i passaggi al II, e a Firenze si raduna un collegio ancora diverso per gli esami del III anno del XXVIII ciclo. Non è proprio così, le cose sono ancora più complesse, ma permettetemi di fare qualche semplificazione. Già non ci si capisce più nulla fra numeri romani, collegi senesi, bandi alla fiorentina, avanzamenti pisani.
I consorzi degli anni ’90 erano da molti rimpianti, ma a quei tempi i docenti del consorzio formavano un collegio unico e stabile nel tempo e, più che altro, si intendevano tutti della stessa materia.
Adesso non è più così. Questi consorzi forzati “alla regionale” sono un calderone di discipline, continuamente cangiante in composizione del corpo docente e numerazione romana, e dentro c’è di tutto: paleontologi e mineralogisti, geomorfologi e geologi applicati, geologi strutturali, stratigrafi e sedimentologi, geochimici e vulcanologi, petrografi e petrologi, geofisici e sismologi, giacimentologi e geologi minerari, esperti di beni culturali e di petrolio, climatologi e idrogeologi, fissisti e creazionisti, gradualisti e catastrofisti.
Per mettere ordine a tutto questo è necessario darsi per forza un “regolamento interno”. Ma si è subito pensato che fosse meglio adottare un regolamento diverso per ogni ciclo/sede/collegio, che si sommasse, intersecandosi, al Regolamento ministeriale, uguale per tutti, e a quelli dei singoli Atenei, ovviamente diversi e non comunicanti fra loro.
Nel nuovo “regolamento interno” si è capito subito che solo una cosa doveva essere uniformemente riconosciuta: il rigoroso equilibrio fra i diversi settori scientifico-disciplinari – anzi no (questi sono troppi) – meglio fra settori concorsuali del macrosettore. E allora ogni anno la commissione giudicatrice deve essere formata da 4 docenti: uno 04/A1, uno 04/A2, uno 04/A3 e uno 04/A4 – che non sono formati di carta per stampanti bensì i suddetti “settori concorsuali del macrosettore”. Solo così si è pensato di garantire uguali opportunità di accesso per tutto lo scibile delle Geoscienze.
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Esce il bando. Si presentano 50 candidati per 9+3 posti.
La commissione si riunisce, valuta i progetti presentati dopo un colloquio, stila una graduatoria e redige un verbale. Quello che non c’è scritto sul verbale sono i criteri – quelli veri – che la commissione è costretta ad adottare, per norma di legge, regolamenti o per prassi consolidata. Provo a riassumerli di seguito.
In primis, i posti devono essere divisi fra le sedi – Firenze, Pisa e Siena – in modo proporzionale alle risorse investite e indipendentemente dal merito dei candidati. Problema apparentemente semplice perché 9 borse e 3 posti senza borsa sono numeri divisibili per 3. Ma non è così banale: il XXXI ciclo è amministrato da Firenze che mette 3 borse che saranno solo sue. Oggetto di ripartizione saranno quindi le 6 borse residue e i 3 posti senza borsa. Che fortuna! Sono ancora multipli di 3.
Poi borse e posti devono essere ripartiti fra i settori concorsuali – quelli con quei nomi da copisteria – sempre rigorosamente in modo indipendente dal merito. E qui il problema si complica, perché c’è 4 al denominatore, ma ancor più perché questa ripartizione deve essere intersecata con quella – suddetta – delle assegnazioni agli Atenei.
Già sembra un problema da Pagina della Sfinge o piuttosto un Incrocio obbligato, ma forse si tratta solo di un giocoso passatempo per professori universitari annoiati, del tipo Che cosa apparirà?.
Nel sistema poi si devono considerare i potenziali “soprannumerari” – orribile locuzione generata dalla burocrazia del PhD all’italiana: la legge e i regolamenti consentono infatti l’ammissione in soprannumero di assegnisti di ricerca, dipendenti pubblici e stranieri in possesso di una borsa di studio. Va fatto un attento screening fra i 50 candidati per capire chi sono i “fortunati” in possesso di tali requisiti, perché essi – indipendentemente dal merito – dovranno sprofondare in fondo alla graduatoria, ben lontani dai primi 12 posti perché tanto verranno comunque ripescati.
Poi va fatta un’attenta analisi per individuare chi intende svolgere la sua ricerca in un gruppo dotato di robuste condizioni finanziarie e abbondanza di progetti di ricerca: conviene infatti assegnare a questi i posti senza borsa – sempre indipendentemente dal merito – assegnando loro il 10°, l’11° e il 12° posto in graduatoria, tanto il loro tutor saprà trovare le risorse per garantire le borse di studio sui propri fondi di ricerca.
Ma non è così semplice. Tutto potrebbe essere scombinato dal complesso meccanismo degli “scorrimenti”, altra perversa regola del dottorato nazionale: se qualcuno della “top 9” (con borsa) decide di fare il dottorato in altra sede oppure di non farlo proprio perché magari intanto ha trovato un mestiere, allora tutto il complesso equilibrio fra posti con borsa e senza borsa si sgretolerebbe rovinosamente. Conviene quindi mettere al 10° e all’11° posto un paio di “riserve” pronte a scorrere verso l’alto in caso di rinuncia di uno dei 9 borsisti. E allora il colloquio di selezione dovrà essere sufficientemente inquisitorio per capire le possibili intenzioni dei candidati e per permettere di effettuare proiezioni affidabili sulla probabilità di rinuncia.
Potrei aggiungere molto altro. Di stranieri con borsa e senza borsa. Di assegni di ricerca piovuti last minute per consentire il soprannumero. Dello strano paradosso che chi arriva primo in graduatoria percepirà una favolosa borsa da 1000 Euro al mese, mentre chi magari arriva ultimo, ma è in possesso di un assegno di ricerca, col soprannumero sarà comunque ammesso allo stesso dottorato ma con una borsa da 1350 Euro mensili (o anche di più): strano caso di meritocrazia burocratica rovesciata. Di quelli che protestano: “l’anno scorso ho fatto un passo indietro, quest’anno tocca a me”. Di quelli che pensano che a tutto questo ginepraio bisognerebbe aggiungere anche gli esisti della VQR perché – nella VQR – ci credono proprio, per fede pronta, cieca, dogmatica e assoluta.
Ah già – scusate – mi stavo dimenticando che c’è un ultimo criterio, rigorosamente subordinato a tutti gli altri: il “merito”, che è anche l’unico che compare sul verbale ufficiale.
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Il risultato è uno solo: una squallida spartizione di risorse pubbliche governata da un rompicapo enigmistico, in cui capacità e merito dei candidati contano purtroppo molto poco, a norma di legge, di regolamenti e per prassi consolidata.
Purtroppo queste sono le conseguenze della folle scelta di concepire nel nostro Paese il dottorato come una sorta di posto di lavoro a tempo determinato, da assegnare tramite concorso pubblico. A ciò si sono poi aggiunte la burocrazia dell’accreditamento ministeriale, la numerologia anvuriana, i selvaggi tagli di borse e di posti, le utopiche e antistoriche sinergie a livello di Regione che assomigliano troppo a espressioni di provincialismo piuttosto che di regionalismo e, non ultima, la fantasia dei docenti nell’escogitare soluzioni stravaganti per venire a capo del rebus.
Voglio essere chiaro e onesto. Queste sono le regole e io per primo mi adeguo (anche se non capisco) e le rispetto. Ci sono anch’io fra quelli che tutti gli anni strepitano: “quest’anno tocca a noi, perché l’anno scorso abbiamo fatto un passo indietro” e magari non è nemmeno del tutto vero, tanto nessuno si ricorda più niente. Da questo astruso sistema peraltro il mio gruppo di ricerca ha avuto indubbi benefici. Però ciò non toglie che, ogni anno, tutto questo mi faccia riflettere e rammaricare per la triste condizione in cui siamo costretti a lavorare e a confrontarci con giovani che ancora ingenuamente pensano che la complessità delle regole sia condizione necessaria e sufficiente per garantire l’equità nell’accesso alla formazione superiore.
Spero che tanti si rendano conto della reale situazione, che si capisca l’importanza del dottorato di ricerca anche per lo sviluppo e l’innovazione del nostro Paese, che si comprenda che le troppe regole hanno solo generato mostri burocratici e che i posti disponibili per l’accesso al dottorato dei nostri giovani migliori sono cronicamente troppo pochi.
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Ogni anno in Germania conseguono il dottorato in media 25.000 nuovi candidati. In Italia i nuovi iscritti ai corsi di dottorato hanno raggiunto il picco massimo di circa 12.000 nel 2008 e, da allora, sono in drammatica diminuzione.
Leggo sul sito del DAAD (Deutscher Akademischer Austauschdienst):
The majority [il 93%, n.d.a.] of doctoral candidates in Germany choose to pursue their doctorates through individual doctoral study. In this model, candidates must find a university professor who will supervise their work on their dissertation. Depending on the subject, the dissertation can be written independently or in collaboration with other researchers. The duration of an individual doctorate depends on one’s personal schedule – or the length of one’s research contract. The duration of individual doctoral study usually ranges from three to five years.
La principale differenza rispetto ai nostri contorti decreti ministeriali sta principalmente nel fatto che, leggendo poche righe, si capisce subito come funziona.
Credo che anche questo sia uno dei motivi per cui la Germania è stabilmente la locomotiva economica d’Europa, mentre noi siamo ancora a dibattere sullo “zero virgola” di crescita del PIL per l’anno prossimo.
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La soluzione è semplice e a portata di mano: guardare ai migliori modelli all’estero e fotocopiarli – senza aggiungere stravaganze burocratiche – e in particolare:
- abolire cicli, accreditamento, limiti di accesso, collegi, attivazione, bandi, soprannumeri e soprannumerari, e tutte le incomprensibili sovrastrutture del dottorato all’italiana;
- fare organizzare e gestire i dottorati dai Dipartimenti;
- consentire l’ammissione al dottorato “a sportello”, senza condizionarla necessariamente all’assegnazione di borse di studio, a seguito di un semplice colloquio di valutazione, anche con modalità telematiche, e qui – sia chiaro – per “modalità telematiche” intendo l’email e le interviste su skype, non certo la PEC e le altre bizzarrie inusabili della “PA digitale”;
- togliere ogni limite di durata e condizionare la concessione del titolo di dottorato alla pubblicazione dei risultati della ricerca a primo nome;
- attribuire le risorse ministeriali per le borse di studio ai Dipartimenti consentendone l’autodisciplina per la ripartizione;
- favorire in ogni modo l’assegnazione di borse di studio agli iscritti ai corsi di dottorato, con fondi di ricerca, sponsor e contributi esterni;
- lasciar perdere i bizzarri progetti di sinergia fra Atenei regionali, perché sono solo inutili perdite di tempo e anche perché nessuno si è mai sognato di costringere Humboldt, Freie e Technische Universitäten di Berlino a fare un Doktorandenprogramm regionale solo per il semplice motivo che sono vicine e che bisogna fare economie di scala;
- porsi l’obiettivo del raddoppio del numero di dottori di ricerca nei prossimi cinque anni, anche mediante l’individuazione di criteri premiali agli Atenei;
- ricordarsi sempre che l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento, e che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi (artt. 33 e 34 della Costituzione della Repubblica);
- cercare di fare le cose in modo giusto, razionale e, soprattutto, SEMPLICE.
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“La semplicità è la suprema sofisticazione” Leonardo da Vinci