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Tagli a ricerca e istruzione, perché l’Italia sta sbagliando tutto

Il risultato delle ultime politiche, nella crisi economica, è formare personale che si possa rapidamente adeguare a un sistema produttivo a bassa intensità tecnologica e con bassi costi del lavoro. Invece di puntare sulla capacità del Paese di creare prodotti innovativi. Ma così perdiamo gli assi per ripartire davvero

29/01/2018
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ROARS

Francesco Sylos Labini

Nei paesi europei più duramente colpiti dalla crisi economica, sono stati imposti rilevanti tagli di bilancio che si sono ripercossi su due settori particolarmente sensibili alla potenzialità di sviluppo: la spesa per Ricerca e Sviluppo (R&S) e quella per istruzione. Se da una parte questa situazione ha reso questi paesi più vulnerabili nel medio e lungo termine a future crisi economiche, d’altra parte le politiche anticicliche d’investimento in R&S sono state adottate con l’unico obiettivo di abbassare il deficit annuo a un valore artificiosamente imposto dalle istituzioni europee e finanziarie, ignorando completamente i devastanti effetti che queste politiche stanno avendo sulla scienza e sul potenziale d’innovazione dei singoli Stati membri e di tutta l’Europa.

Le istituzioni europee si sono mostrate essere più preoccupate del rispetto delle misure d’austerità per soddisfare i vincoli di bilancio da parte degli Stati membri piuttosto che puntare al mantenimento e al miglioramento di un’infrastruttura di R&S, che possa servire a trasformare il modello produttivo esistente in uno più robusto basato sulla produzione di conoscenza. Questa politica, perpetrata con determinazione dal 2008 in poi, spesso, come vedremo di seguito, in combinazione con analoghe politiche a livello nazionale, ha causato un indebolimento della potenzialità stessa di ripresa dei paesi meno competitivi da un punto di vista industriale e tecnologico, tra i quali spicca il nostro.

E’ semplice rendersi conto che l’investimento pubblico in R&S è un attrattore d’investimenti privati e senza un rilancio del primo, anche il secondo rimane al palo. Basti pensare all’esempio dei paesi più forti da un punto di vista tecnologico e industriale come gli Stati Uniti, dove la crescita economica è supportata dall’innovazione che ha radici nella ricerca di base finanziata dal governo federale, ma anche ai casi della Germania, che ha aumentato del 70% la sua spesa in R&S dal 2000 al 2013,o della Cina che ha avuto uno spettacolare incremento dal 2000 a oggi. Per contro nei paesi dell’Europa meridionale, tra i quali il nostro, in combinazione con un rallentamento della spesa in R&S statale, vi è stato un rilevante calo del numero di aziende innovative. Questo è avvenuto partendo da una situazione in cui già vi era una prevalenza di aziende a dimensione familiare, tra le piccole e medie imprese, senza alcuna capacità d’innovazione. La quota d’investimento in R&S del settore privato nei paesi dell’Europa meridionale, tra i quali il nostro, è meno della metà della media europea, mentre il numero di ricercatori impiegati nell’industria manifatturiera nel nostro paese è tre volte di meno della media europea e quattro volte di meno che in Francia.

La perdita nell’investimento in ricerca è irreversibile, perché sta sacrificando generazioni di giovani scienziati, specialmente nei paesi dell’Europa meridionale che invece avrebbero dovuto incrementare in misura sempre più consistente il loro investimento in ricerca. Al contrario, seguendo la direttiva europea mirante per la riduzione del personale nel settore pubblico, sono stati imposti agli istituti di ricerca e alle università pubbliche drastici tagli nel reclutamento che, insieme alla mancanza di opportunità nel settore privato, hanno innescato una “fuga di cervelli” dal Sud al Nord dell’Europa e al di fuori del continente stesso. Questo si traduce in un’irreversibile perdita d’investimenti e aggrava il divario in R&S tra gli Stati membri. Scoraggiati dalla mancanza di opportunità e dall’incertezza derivante dalla concatenazione di contratti a breve termine, molti scienziati stanno abbandonando la ricerca: invece di diminuire il deficit, questo esodo contribuisce a crearne uno nuovo nella tecnologia e nell’innovazione.

Queste politiche hanno prodotto nel nostro paese una situazione paradossale. I laureati fanno fatica a entrare nel mondo del lavoro, ma in Italia la percentuale di laureati nella fascia d’età tra 30 e 34 anni è non solo la metà che nell’Europa del centro-nord, ma la più bassa tra i paesi OCSE. Solo nel 2016 sono aumentati i laureati italiani che hanno lasciato il Paese (quasi 25mila nel 2016 +9% sul 2015). I ricercatori italiani sono ancora capaci di vincere i più ambiti e ricchi progetti europei, ma sempre più spesso scelgono di svolgere la loro attività di ricerca all’estero: ad esempio i ricercatori italiani sono il secondo gruppo dietro la Germania per nazionalità ad aggiudicarsi i ricchi progetti ERC ma più della metà sceglie l’istituzione in cui lavorare in un altro paese che il proprio, mentre, nello stesso tempo, nessun ricercatore straniero sceglie l’Italia come paese di destinazione. La scarsa attrattività del nostro paese non è sorprendente, dato il disinvestimento in risorse finanziarie e umane nel settore dell’alta formazione e della ricerca.

Nonostante i laureati siano pochi e i ricercatori siano un terzo per unità di popolazione della Francia o della Germania, la politica dell’ultimo decennio si è focalizzata sul taglio di risorse nel settore dell’alta formazione e della ricerca con risultati devastanti. C’è stata una diminuzione del 20% degli immatricolati nell’università, del 18% dei docenti universitari e del personale tecnico amministrativo, del 18% dei corsi di studio e del 20% delle risorse complessive. In dieci anni si è ridotto del 40% il numero di posti di dottorato con il risultato che in Italia vi sono 0,5 dottorati ogni 1000 abitanti contro l’1,7 del Regno Unito e i 2,5 della Germania: nel 2015 siamo diventati penultimi in Europa e solo Malta riesce a fare peggio.  Le prospettive dei ricercatori che hanno un contratto a tempo determinato sono anche drammatiche: si calcola che su circa 13,500 assegnisti di ricerca, date le attuali condizioni, solo il 7% ha la possibilità di essere strutturato nell’accademia, mentre il 93% verrà espulso dal sistema. In totale il finanziamento statale al sistema universitario è diminuito del 21% in dieci anni: per avere un termine di paragone, questo ammonta a 6,6 miliardi di euro (0,42% del PIL) contro i 20 miliardi di euro della Francia (1% del PIL) e i 27 miliardi della Germania (1% del PIL).

Nel nostro paese, questa situazione è stata determinata da una combinazione tra le politiche europee, che come accennato sopra hanno imposto vincoli di bilancio, con le scelte a livello di politica nazionale negli ultimi dieci anni. Per quanto riguarda quest’ultima, la motivazione è stata la seguente. Tutti sono d’accordo sul fatto che la ricerca sia,da una parte, alla base dell’innovazione che a sua volta favorisce lo sviluppo economico, e, d’altra parte,sia il frutto di un sistema d’istruzione, inferiore e superiore, che crea quelle competenze che sono la precondizione del processo che collega ricerca a sviluppo economico. E se lo sviluppo economico non avviene, se il paese si trova immerso in una crisi ormai decennale, alla radice di chi è la responsabilità? La risposta che la politica ha trovato, e che ha motivato le scelte che hanno portato alla contrazione d’investimenti descritto sopra, è stata: del sistema formativo che è alla base della formazione delle competenze. Di qui dunque la necessità di modellare il sistema formativo, a tutti i livelli, per renderlo più adatto al mondo del lavoro, cioè per forgiare quelle competenze di cui si avrebbe realmente bisogno.

La riforma Gelmini con tutte le successive integrazioni, la riforma della Buona Scuola, con l’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro, sono dunque il maldestro tentativo di cambiare il sistema formativo ai differenti livelli: sono cioè la risposta della politica al problema della crisi economia e in particolare della disoccupazione giovanile. Si tratta però di una risposta sbagliata poiché la presenza di un’attività di ricerca che sia di livello internazionale, è, infatti, una condizione necessaria ma non sufficiente per lo sviluppo economico. Il sistema formativo deve creare delle conoscenze e delle capacità che rappresentano il potenziale indispensabile per poi riuscire a innovare e a dare così impulso al sistema economico. Tuttavia queste capacità, se non sono inserite in un sistema imprenditoriale e industriale adeguato, non possono di per sé generare sviluppo economico. Il problema del nostro paese è, infatti, un altro: come abbiamo visto in precedenza, è quello di essere il fanalino di coda nella quota di occupati nei settori ad alta conoscenza, cioè quei settori ad alta intensità tecnologica che rendono possibile lo sviluppo di beni che più difficilmente sono prodotti anche da altri paesiCosì come l’Italia “eccelle” nell’occupare la penultima posizione per quanto riguarda la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese.

Dunque la motivazione degli stravolgimenti in atto nelle politiche dell’istruzione è di formare personale che si possa rapidamente adeguare a un sistema produttivo a bassa intensità tecnologica, che a sua volta richiede dal sistema formativo scarse competenze qualificate, generando in tal mondo un circolo vizioso al ribasso per quel che riguarda la formazione: altro che economia della conoscenza! In questa situazione la spesa pubblica in ricerca e sviluppo è vista come uno spreco che va ridotto: esattamente quello che hanno fatto i governi nell’ultimo decennio.

In questa maniera si è preferito puntare su un’economia basata sulla competitività del costo del lavoro (e di qui il Jobs Act e tutte le altre misure volte ad abbassare i salari e le tutele dei lavoratori) piuttosto che puntare a una economia che guardi alla competitività tecnologica.

Solo con un coordinamento tra politiche della formazione, di ricerca e sviluppo e politiche industriali volte a potenziare la presenza di settori tecnologicamente innovativi potrà evitare all’Italia di andare incontro ad una emarginazione dal contesto competitivo internazionale e dunque a una regressione economica ancora più marcata di quella cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Delle politiche, cioè, che invece di puntare a formare manodopera di basso livello formativo per lavori a basso costo, ripunti a formare quelle capacità di conoscenza che rappresentano l’unico potenziale di uno sviluppo solido, come ci insegnano non solo gli Stati Uniti e la Germania ma da qualche tempo anche la Cina.

Referenze
Francesco Sylos Labini, “Rischio e Previsione: cosa ci dice la scienza sulla crisi” Laterza, Roma-Bari 2016
VII Indagine ADI su Dottorato e Post-Doc, Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani
Daniela Palma, “Cervelli in fuga” e gap tecnologico dell’Italia, Pubblicato su Italianieuropei il 28 aprile 2016
Gianfranco Viesti, “Elementi per un’analisi territoriale del sistema universitario italiano”, Fondazione RES

[Pubblicato Su Agenda Digitale] 


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