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Sull'istruzione andare oltre la pur drammatica contingenza. Intervento di Francesco Sinopoli su L'Huffington Post

Accettare la sfida che ha posto il governatore di Bankitalia Ignazio Visco a proposito del legame tra processi di crescita sociale ed economica e sistema della conoscenza.

07/09/2020
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L'Huffington Post

Nell’intervento allo EuroScience Open Forum 2020 di Trieste dello scorso 4 settembre, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco fornisce un’analisi incisiva della relazione tra i processi di sviluppo socio-economico e il ruolo della conoscenza, con una serie di pro-vocazioni che sfidano la nostra riflessione, al di là e oltre le pur difficili condizioni poste dalla drammatica contingenza da Covid-19.

Cito qui uno dei passaggi centrali nel discorso di Visco che riapre al dibattito pubblico un’analisi sotterrata in questi lunghi mesi nei quali la questione dell’istruzione è stata ridotta al numero dei banchi e degli studenti in una classe e all’adozione più o meno larga delle lezioni a distanza.

“La bassa spesa in ricerca è accompagnata da investimenti insufficienti nell’istruzione” afferma Visco. “Per quanto riguarda la dimensione quantitativa, i dati mostrano che gli italiani non frequentano la scuola abbastanza a lungo. La dimensione qualitativa del problema educativo investe il fatto che gli studenti italiani sembrano non imparare abbastanza”.

Difficile essere più chiari ed efficaci di così. Allo stesso tempo il governatore evidenzia uno dei problemi storici del sistema produttivo italiano e cioè il suo essere strutturalmente e morfologicamente incapace di condizionare positivamente il sistema di istruzione.

Cito testualmente: “Anche le imprese private hanno un ruolo chiave da svolgere. La loro reazione all’enorme trasformazione indotta dal progresso tecnologico e dalla globalizzazione durante gli anni ’90 si è riflessa in una richiesta di costi del lavoro inferiori, invece che in investimenti più elevati e adeguati in nuove tecnologie. Ciò avrebbe stimolato la domanda di manodopera altamente qualificata, innescando forse un circolo virtuoso di domanda e offerta di istruzione superiore”. Innovazione e formazione “sono plasmate dalla struttura del sistema produttivo estremamente frammentato in Italia”.

Questa affermazione è di enorme importanza non perché ci dica cose nuove ma perché viene dal governatore della Banca d’Italia proprio mentre ha inizio la discussione sulle risorse del Recovery Plan e mentre si affastellano progetti da parte dei diversi ministeri, di cui stentiamo per ora a vedere un disegno unitario e coerente.

Visco indica una strada chiara su cui noi insistiamo da tempo: istruzione e ricerca sono le uniche chiavi per ricostruire il nostro sistema produttivo e non possono rispondere alle domande immediate che esso pone essenzialmente in una visione di corto respiro. Esse devono plasmare il sistema produttivo e per farlo hanno bisogno di una strategia di lungo periodo che solo lo Stato può determinare, partendo da un incremento sostanziale degli investimenti diretti in questi settori.

L’opposto delle richieste che ascoltiamo da una parte del sistema delle imprese e ora dalla leadership di Confindustria: dateci incentivi per abbattere il costo del lavoro e del resto ci occupiamo noi. Una via miope e già verificata nel suo fallimento in stagioni anche più semplici di quella attuale. Il mercato non riforma sé stesso senza un orientamento forte dello Stato, il quale, oggi più che mai, deve avere al centro non solo la crescita in quanto tale ma la sua qualità, i suoi contenuti, la sua effettiva e reale sostenibilità.

Non è tempo di correzioni a margine ma di una inversione radicale di rotta. Se dobbiamo fare un bilancio rispetto a ciò che è avvenuto nella pandemia non possiamo però essere tranquilli rispetto alle scelte che il governatore Visco evoca. Soprattutto se le priorità reali del governo sono quelle degli ultimi mesi.

Difatti, dopo l’emanazione del decreto Rilancio e dopo lo scostamento di bilancio, è evidente che le risorse “nazionali” per affrontare lo shock da coronavirus sono di fatto terminate. Per i settori della conoscenza e per la scuola, non solo le risorse dedicate sono insufficienti, ma non è previsto alcun piano organico per la ripresa.

Noi abbiamo iniziato a declinare alcune richieste chiare già negli Stati generali a Palazzo Chigi: rendere obbligatoria la scuola dell’infanzia investendo molte risorse soprattutto nel Mezzogiorno, decisamente penalizzato dall’assenza di queste infrastrutture decisive e necessarie per le nuove generazioni. Portare l’obbligo scolastico a 18 anni e costruire un solido sistema di istruzione degli adulti che ruoti intorno alla struttura pubblica dei Cpia. Una visione del sistema di istruzione, universitaria e della Ricerca Pubblica alternativa a quella degli ultimi 30 anni che rimetta al centro l’idea di una infrastruttura nazionale radicata e diffusa nelle aree più fragili del Paese, quindi opposta alla logica delle eccellenze e dell’autonomia competitiva.

Servono un progetto e una visione che rilancino innanzitutto i nostri “sud” e le aree interne e affrontino le vere grandi emergenze del nostro tempo, a partire da quella ambientale e  da quella demografica, sempre più aggravate, come dimostrano i dati Svimez. In sostanza aumentare i livelli complessivi di istruzione e ricerca nel nostro paese come antidoto ad un declino che è iniziato prima di questa crisi ma anche di quella del 2008. Non è impresa da poco, ma se non la si percorre ora, difficilmente potrà essere realizzata in tempi di penuria di risorse. E potrebbe essere una delle risposte possibili all’interrogativo di Ignazio Visco sul perché “gli italiani frequentano la scuola troppo poco” e perché in Italia “gli studenti non imparano abbastanza”. 

Il problema non è dunque solo la quantità di risorse che si riuscirà ad intercettare quanto la capacità di coniugare gli investimenti con programmi di riforma, sviluppo e di spesa credibili, per l’istruzione e per l’intero settore della conoscenza.

Ma ci permettiamo di andare anche oltre le condivisibili suggestioni di Visco. Ciò che nel discorso appare sotto traccia ci rinvia alle domande fondamentali: ma perché la scuola? Perché l’università? Perché impariamo? Interrogativi banali?

C’è una dimensione economica che non possiamo mai scindere da quella etica, civica, filosofica. Eppure, è proprio la risposta a questi interrogativi “banali” che determina la posta in gioco dell’istruzione dei prossimi decenni, e la sfida per le nuove generazioni, che il sistema industriale vorrebbe conformare alla propria ideologia.

Ripartiamo, nel tempo della crisi, dai “fondamentali”, dal senso, tornando all’origine. Apprendere è un processo naturale per i bambini, che lo fanno con una velocità strabiliante. Si pensi solo al linguaggio. Nei primi 24 mesi di vita essi passano dai suoni indistinti della voce alla capacità di parlare e di esprimere concetti. Si tratta di un processo incredibile, che nessuno finora ha saputo interpretare. C’è e basta. Apprendere un linguaggio è operazione assai complessa, eppure i bambini esprimono una capacità naturale che sfocia nella curiosità intellettuale, nei perché ripetuti a iosa, nelle domande poste a coloro che stanno loro vicino.

Come avviene questo processo? Mediante una relazione, affettiva, conoscitiva, emotiva, perfino fisica. A questa relazione diamo il nome di educazione, che non è affatto un insieme di norme e regole (quelle vengono più avanti nella vita), ma il metodo col quale si concretizza la fase dell’apprendimento. Da quel momento si viene introdotti nella scolarizzazione.

Cos’è la scolarizzazione? È quel segmento del progresso umano per cui una comunità di persone impara, insieme, e l’una dall’altra, un processo di socializzazione. Le scuole contemporanee sono ancora questo? Sì, perché gran parte di ciò che s’impara a scuola è sempre frutto di una relazione. S’impara con gli altri e dagli altri. L’apprendimento è dunque un processo sociale, promosso dalla educazione e dalla scolarizzazione, e favorisce le fasi della maturazione individuale. Se s’impara per la vita, come pensavano i latini, lo si fa perché si vive insieme agli altri, in una dimensione originariamente intersoggettiva e relazionale.

Ma se è così, mai come oggi si deve tornare al senso originario dell’apprendimento e dell’insegnamento. Conoscenza ed emozione, offerta di sapere emancipativo, e garanzia che i figli avrebbero fatto meglio dei padri: questa era la scuola prima dell’involuzione del XXI secolo. In questo processo di progressivo abbandono del senso originario dell’istruzione, la politica ha fatto la sua parte, anche a sinistra.

In Italia, tutte le riforme del XXI secolo sono state compiute in virtù di un malinteso: l’istruzione è una spesa per lo Stato, non un investimento, sopportabile o meno a seconda dei periodi economici. Se lo Stato tracolla, la prima a farne le spese è proprio l’istruzione. In questi anni l’istruzione è divenuta il luogo in cui diseguaglianze e ingiustizie sono state affermate e legittimate, piuttosto che divelte. Il carattere emancipativo della conoscenza si è perduto.

Le nuove generazioni hanno conosciuto non l’amore per il sapere, ma la nuova ideologia della indifferenza ma essa genera persone omologate, prive di senso critico, monadi individualistiche e prive di relazioni. Se tutto ciò manca nella società, come può non mancare nella scuola? Ecco perché il XXI secolo della scuola ha celebrato più le virtù competitive, che esaltano l’individuo, piuttosto che l’esercizio dell’aiuto e della cooperazione. Ecco perché le scuole stesse come del resto le università sono diventate veicoli della competizione.

Ed ecco perché istruzione, educazione e scolarizzazione vanno riaffermate secondo il loro senso originario e più pregnante, abbattendo il muro creato dall’ideologia delle competenze competitive, dalla trasformazione burocratica degli istituti in aziende competitive, dalla percezione di insignificanza sociale della scuola e dell’università e di chi ci lavora. Questa è la grande riforma che occorre realizzare per la scuola, per le università, per il destino stesso delle nuove generazioni. E questa è l’unica risposta che trovo possibile agli stimoli che il governatore Visco ci propone.

Per salvare l’istruzione serve un grande movimento per difendere la Costituzione, proprio nel momento più difficile della sua storia. Costituzione del 1948 e istruzione: i due assi su cui si fondano democrazia e libertà, sapere emancipativo e critico e speranze delle nuove generazioni. Non lasciamo che vadano assieme alla deriva.

Il prossimo 26 settembre saremo nuovamente in piazza, movimenti, sindacati e associazioni, per riaffermare il ruolo centrale e prioritario della scuola e della conoscenza come condizione di crescita del Paese. Come Cgil nelle prossime settimane avanzeremo una proposta specifica per rilanciare istruzione e ricerca dentro una visione di senso e prospettiva per l’intero Paese, una proposta su cui costruire mobilitazione e consenso. Speriamo di avere con noi anche il governatore Visco.


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