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Sull’insegnamento dell’italiano a scuola. Lettera aperta al Professor Luca Serianni

non c’è riassunto, non c’è dettato, non c’è esercizio di glottodidattica che abbia alcuna potenziale efficacia se prima non riportiamo i nostri studenti adolescenti in un mondo in cui saper ascoltare, parlare, leggere e scrivere bene abbia un senso profondo

08/10/2017
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ROARS

Anna Angelucci

… non c’è riassunto, non c’è dettato, non c’è esercizio di glottodidattica che abbia alcuna potenziale efficacia se prima non riportiamo i nostri studenti adolescenti in un mondo in cui saper ascoltare, parlare, leggere e scrivere bene abbia un senso profondo. E non è il mondo virtuale, in cui loro oggi sono immersi, dove basta sfiorare un emoticon per credere di aver espresso un sentimento. E’ il mondo reale, quello che ci circonda, quello della crisi economica, quello delle migrazioni disperate, quello delle guerre, della mafia e della criminalità organizzata; ed è il mondo immaginario, quello della ricerca della felicità, quello del desiderio, quello dell’amore e dell’amicizia, della vita e della morte. Recuperiamo il ruolo delle storie come ‘passaggi’ attraverso la complessità del mondo e del racconto del mondo, del groviglio delle ragioni e dei torti, delle cause e delle conseguenze, della realtà e della sua rappresentazione. Se ci limitiamo a invocare il dettato ortografico finiremo col vagheggiare le gare di spelling. E Dio solo sa quanto poco bisogno abbiamo di emulare ancor di più il modello scolastico angloamericano!»

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Egregio Professore,

accolgo con vivo piacere la notizia del Suo incarico di consulente del Ministero dell’Istruzione per l’apprendimento della lingua italiana. Ogni insegnante, e non solo d’italiano, così come ogni adulto mediamente colto, sa quanto sia urgente, oggi, individuare soluzioni al problema della diffusa incompetenza linguistica degli adolescenti. Un’incompetenza ortografica, lessicale, grammaticale, sintattica – su cui Lei in molte occasioni ha riflettuto – recentemente denunciata con fervore nella lettera aperta di 600 docenti universitari, che chiedono a chi governa il sistema scolastico di intervenire concretamente e di mostrare una “volontà politica adeguata alla gravità del problema”.

Esiste  dunque una ‘questione della lingua’ che La chiama in causa e che chiama in causa tutti noi, come docenti d’italiano e non solo, nella scuole di ogni ordine e grado. Che chiama in causa tutte le istituzioni e l’intera società civile, perché, come ci ha insegnato Gramsci – e come, in tempi più recenti, ci hanno ricordato Tullio de Mauro e gli autori delle “10 tesi per un’educazione linguistica democratica” – ogni “quistione della lingua” pone un problema culturale più ampio, sociale e politico. E non lo dico per ridimensionare le precise responsabilità della scuola, attribuendo il problema al più generale degrado culturale in cui siamo immersi o alla diffusione di nuove forme di oralità e scrittura, linguisticamente e iconicamente ibridate e dunque anarchiche sotto il profilo normativo e, al contempo, scarnificate nelle loro potenzialità semantiche. Tutt’altro. Parlo proprio di precise responsabilità della scuola, dunque anche mie. Ed è per questo che sento di dover esprimere alcune considerazioni dettate dall’esperienza e dalla riflessione sull’esperienza, ormai trentennale, di insegnante di italiano nei licei.

Che molti, troppi ragazzi, al termine del biennio della scuola superiore, mostrino gravi carenze nelle capacità di letto-scrittura e scarsa padronanza dei saperi umanistici è sotto gli occhi di tutti. Lo rilevano le indagini comparative internazionali e lo testimoniano numerose evidenze empiriche: la composizione di un testo, scritto o orale, che descriva o che argomenti qualcosa in modo adeguato – cioè corretto nella forma, chiaro ed esaustivo nel contenuto – è spesso un compito al di sopra delle loro possibilità. Prevale, a scuola, la produzione di pensierini formulati in un registro basico, di chi non possiede morfologia, sintassi, lessico di base e capacità testuale. Una specie di pidgin elementare, costruito su un piccolissimo repertorio di segnali di interpunzione, di parole, di modi e tempi verbali, di frasi brevi, in cui quasi esclusivamente il ‘dove’ polivalente segnala una parvenza di ipotassi.

Questo basta e avanza per suggerire che i docenti, fin dalle elementari, siano più rigorosi nel controllo di ortografia, grammatica e sintassi; per chiedere un maggior numero di verifiche nazionali periodiche negli otto anni del primo ciclo o, addirittura, per sollecitare la revisione delle indicazioni nazionali. E certo questo basta e avanza per riproporre, nella didattica curricolare e non solo nella fascia dell’obbligo, tipologie testuali ed attività di scrittura che sviluppano importanti abilità cognitive, come il riassunto o gli esercizi di glottodidattica. Siamo assolutamente d’accordo.

Ma io non credo che il discorso possa esaurirsi qui. Rigore, controllo, severità, incremento di specifiche pratiche di scrittura sono condizione necessaria ma non sufficiente per affrontare il problema. Occorre mettere in campo un altro dato significativo, a mio avviso sottovalutato: l’abbandono della lettura. O meglio, l’abbandono della letteratura. E qui rientra a pieno titolo il discorso sulla società e quello, gramsciano, che lega la “quistione della lingua” al problema dell’egemonia culturale, in’epoca che sta trasformando radicalmente i suoi paradigmi. La nostra è una società che rifiuta l’idea del valore del passato e della sua trasmissione, per secoli testimoniati dalla tradizione dell’opera letteraria e dal libro. I nuovi strumenti di comunicazione legati a Internet, ovvero a una rete di collegamenti informatici a livello planetario, annullando le distanze spazio-temporali e inventando una nuova dimensione che contrae geografia e storia in un indistinto ‘qui e ora’, ci stanno allontanando dalla sfera del reale e dell’immaginario per calarci nella dimensione virtuale di un’apparenza totalizzante, in cui non c’è più la mediazione della narrazione o della rappresentazione ma solo un’esposizione immediata. Soprattutto i più giovani, fatti prigionieri di un bozzolo narcisistico e voyeuristico, hanno barattato il tempo lungo del racconto  di sé e del mondo con l’immediatezza effimera  e fugace dell’immagine propria e altrui: invece del libro, un selfie. In una solitudine sconfinata, la solitudine dei social, si consuma oggi la desoggettivizzazione dell’io di molti adolescenti, per i quali letteratura e racconto non sono più un’esperienza di vita profonda, significativa e formativa. Tutt’al più puro intrattenimento, come quello garantito dall’unica forma narrativa diffusa tra i più giovani, il genere ‘fantasy’, in cui il soprannaturale, il fantastico, il surreale o l’iperreale sono fittamente intessuti in un ipertrofico quanto incomprensibile intreccio di trame, personaggi, situazioni, parole che ne costituiscono forma e contenuto.

Ma anche dire questo non basta. Il dato che ho voluto sottolineare – l’abbandono della letteratura, il venir meno delle sue potenzialità conoscitive e il suo nesso con la perdita di capacità espressive negli studenti – esige da noi insegnanti un ulteriore approfondimento. Viviamo in un mondo complessificato dalla globalizzazione, dalle mille implicazioni e contraddizioni insite nella nuova relazione tra locale e globale; un mondo trasformato dalla fine delle vecchie ideologie e dall’emergere di nuovi fondamentalismi, nuovi dogmi, anche laici, che condizionano individui e società; un mondo in cui molti dei vecchi confini geopolitici sono mutati ma in cui si erigono nuovi muri, materiali e immateriali, e in cui premono sempre più forti le istanze degli individui e dei popoli depredati e occupati del sud del pianeta.

A questa complessificazione, e alla necessità che i giovani siano antropologicamente attrezzati per affrontarla, per comprenderla e per interpretarla, noi non possiamo dare una risposta parziale, che agisca solo su un aspetto del problema, nella fattispecie quello linguistico, e non lo inquadri in una visione olistica.

Perché l’attuale, conclamata inefficacia didattica, pedagogica e formativa dell’insegnamento dell’italiano nella fase conclusiva dell’obbligo d’istruzione non si misura soltanto con il metro dell’incompetenza linguistica.

I nostri studenti, che a 15 – 16 anni non hanno alcuna capacità di orientamento nel panorama dell’offerta culturale, a partire da quella letteraria, italiana e straniera, classica e contemporanea; che hanno rinunciato all’idea che l’opera letteraria sia portatrice di senso, storico e metastorico, e che costituisca uno stimolo prezioso alla riflessione su di sé e sul mondo; che non hanno costruito una capacità espressiva articolata nel lessico e nella sintassi, fondata anche sul confronto con modelli narrativi significativi ma, prima ancora, una capacità di comprensione e di interpretazione di sé e del mondo attraverso quell’esplorazione dei significati contenuti nel testo letterario che è tanto affine all’attività di lettura della mente negli scambi interpersonali, attraverso quell’esposizione alla finzione narrativa che induce la capacità di sentire empaticamente le emozioni del personaggio come se fosse un altro in carne ed ossa; ebbene questi nostri studenti – e sono tanti, troppi, in questa condizione – come potranno leggere, comprendere, interpretare ed esprimere le loro emozioni, i loro pensieri, le loro paure, le loro speranze sulle grandi questioni che attanagliano la loro adolescenza e sulle grandi questioni che attanagliano il mondo in cui viviamo?

Un rigoroso ‘addestramento’ alla correttezza espressiva è necessario ma non basta. Bisogna ripensare integralmente il curricolo d’italiano nella fascia dell’obbligo della scuola secondaria. Riunificare educazione linguistica e educazione letteraria, perché la letteratura è una risorsa pedagogica preziosa e la dicotomia tra antologia e grammatica (in una disciplina che, per giustapposizione spesso disordinata, è diventata epica + narrativa + poesia + teatro + grammatica + sintassi + laboratorio di lettura e/o di scrittura + Promessi Sposi + avviamento alla storia della letteratura + prove Invalsi!) è certamente proficua per l’editoria scolastica ma di sicuro fuorviante per insegnanti e studenti, che sembrano aver dimenticato che la letteratura è un’irrinunciabile varietà della lingua e che la lingua è il nostro modo di stare nel mondo.

E ancora. Osserviamo i libri di testo – mi riferisco in particolar modo a quelli in uso nel biennio delle superiori – e ragioniamo sulla loro prevalente impostazione metodologica. Sembra che in Italia nessuno abbia letto Todorov e il suo “La letteratura in pericolo”: l’educazione letteraria, anche quando proposta nelle antologie con un’articolazione per generi o per temi, avviene sempre attraverso l’analisi del testo (sequenze, divisione in sequenze, focalizzazione, sistema dei personaggi, tempo e spazio ecc.), cioè attraverso l’insegnamento degli strumenti dell’analisi del testo letterario, con obiettivi prevalentemente tecnicistici e formali. L’educazione linguistica si snoda attraverso un modello normativo, deduttivo, astratto, rigido e assolutamente improduttivo (morfologia: le parti del discorso/esercizi; sintassi: frase semplice e complessa/esercizi) e così anche la linguistica testuale: funzioni di Jakobson e registri linguistici, seguiti da un elenco di tipologie testuali (testo regolativo/informativo/descrittivo/argomentativo) da riconoscere e imparare a riprodurre. Tutti i libri hanno ormai corpose sezioni dedicate alle prove Invalsi, da eseguire in vista delle rilevazioni nazionali e comunque l’intero apparato degli esercizi e delle analisi dei testi risente ovunque della spinta all’uso del test come strumento di verifica della comprensione, alla luce delle indicazioni, anche europee, di una didattica per competenze e abilità di literacy. Osserviamo, infine, che i testi antologizzati sono sempre più brevi, spesso banali, e corredati quasi esclusivamente di domande a risposta chiusa. E’ davvero significativo il confronto tra le antologie degli ultimi 15 anni, passate dal chiedere “perché?” a sollecitare crocette, a riprova del cambiamento di paradigma culturale in atto.

Ci dobbiamo interrogare su questo, professor Serianni. Ci dobbiamo interrogare sugli effetti della marginalizzazione della letteratura e dell’ermeneutica nell’insegnamento dell’italiano nella scuola dell’obbligo. Come se veramente potessimo considerare la comprensione del testo l’unico obiettivo da raggiungere. Come se veramente potessimo rinunciare, oggi più che mai, a un progressivo incremento delle capacità di interpretazione di sé e del mondo nei nostri studenti. Anche attraverso la letteratura. Che non è mai classista. Se ha permesso a me, figlia di una sarta e di un rappresentante di bombole del gas, di aprire una finestra su me stessa e sul mondo, leggendo romanzi e poesie fin da bambina e raccontando o scrivendo le mie sensazioni, le mie impressioni, le mie interpretazioni, alla maestra e ai miei insegnanti fino all’università e oltre, in un progressivo arricchimento delle mie capacità di analisi e di sintesi, in un progressivo affinamento delle mie capacità espressive, garantendomi l’accesso al materiale e all’immaginario, al contratto di lavoro come all’opera letteraria o filosofica, perché la stessa cosa non può ricominciare ad accadere a ciascuno dei nostri studenti oggi?

Non voglio misconoscere la ventata di rinnovamento democratico che, sulla scorta di Don Milani e con l’avallo di tanti accademici e intellettuali, ha utilmente investito la scuola italiana nel secondo dopoguerra. Ma mi chiedo: siamo sicuri che ‘dare a ciascuno secondo i propri bisogni’ non abbia significato, di fatto, semplificare e sottrarre un po’ a tutti per garantire, horribile dictu, quel ‘successo formativo’ erroneamente scambiato per garanzia di giustizia sociale? Non sarà invece che è stato commesso un errore? Che marginalizzare la letteratura in favore di altre, più semplici, più ‘utili’ e dunque apparentemente più democratiche forme di scrittura si sia tradotto in una deprivazione proprio per chi invece aveva più bisogno di quella ricchezza e di quella complessità? Per chi cioè, la letteratura non ce l’aveva in casa e poteva conoscerla solo a scuola? Non sarà che nella foga di garantire a tutti la ‘funzionalità comunicativa’ ci siamo accontentati di soddisfare un bisogno primario e abbiamo trascurato di coltivare il pensiero simbolico nei nostri studenti, dimenticando che noi siamo la specie simbolica, che la mente umana organizza l’esperienza soggettiva e interpersonale attraverso un pensiero narrativo e che il linguaggio nasce proprio dalla necessità di organizzare l’esperienza in forma narrativa? E che oggi non facciamo che raccogliere i cocci di un immaginario e di un’interiorità in frantumi, testimoniati da questo dilagante analfabetismo di ritorno che spesso è anche spia di un analfabetismo emotivo? E non sarà allora davvero opportuno, se vogliamo tentare di sanare l’incompetenza linguistica – e non solo – dei nostri adolescenti, riaffermare a scuola il valore e la funzione della lettura del testo letterario come esperienza pedagogica, psicologica e cognitiva irrinunciabile, anche ai fini della costruzione di una propria, articolata e complessa, abilità espressiva? Considerando la padronanza di lessico, grammatica, ortografia, sintassi, ovvero della testualità – intesa come espressione di capacità linguistiche e cognitive – una condizione irrinunciabile per ‘essere nel mondo’. Su un piano esistenziale, prima ancora che culturale e politico. Per essere consapevole di sé come donna o come uomo che interagisce con altri esseri umani, prima ancora che come cittadino che si muove in uno spazio sociale o come studente che si esprime correttamente a scuola e all’università.

Concludo, professor Serianni. Io credo che recuperare ruolo e funzione pedagogica dell’educazione letteraria per ricostruire dalle fondamenta un pensiero e una lingua collassati, per combattere la pervasività di forme espressive scarnificate o scorrette che spesso veicolano contenuti superficiali, non significhi rinunciare alla lettura e alla comprensione dell’articolo di giornale né ritornare ad insegnare a parlare e a scrivere col vecchio modello ad excludendum, consolidato dalla tradizione e da antichi vocabolari.

Significa che non c’è riassunto, non c’è dettato, non c’è esercizio di glottodidattica che abbia alcuna potenziale efficacia se prima non riportiamo i nostri studenti adolescenti in un mondo in cui saper ascoltare, parlare, leggere e scrivere bene abbia un senso profondo. E non è il mondo virtuale, in cui loro oggi sono immersi, dove basta sfiorare un emoticon per credere di aver espresso un sentimento. E’ il mondo reale, quello che ci circonda, quello della crisi economica, quello delle migrazioni disperate, quello delle guerre, della mafia e della criminalità organizzata; ed è il mondo immaginario, quello della ricerca della felicità, quello del desiderio, quello dell’amore e dell’amicizia, della vita e della morte. La letteratura è denotativa e connotativa, ci immette nel mondo e nell’interpretazione del mondo e ci obbliga, oggi più che mai, a costruire un doppio sguardo, dentro e fuori dai modelli teleologici consolidati, insieme ai nostri studenti. E lo fa con le parole, con le frasi, con l’architettura del testo.

Riportiamoli lì. Troviamo insieme il modo. E’ una questione di rilevanza nazionale. Facciamo sì che spengano i loro cellulari, che a scuola non servono affatto, e abbiano sul banco solo libri. Che li leggano e che ne parlino, tra loro e con gli insegnanti. Che li commentino, che li esaltino, che li critichino, a voce o per iscritto, per quello che dicono e per come lo dicono. Ripartiamo insieme a loro dalla condivisione dell’esperienza della letteratura e del suo valore. Dalla lettura e rilettura di un testo particolarmente espressivo o significativo, della pagina di uno scrittore e poi quella di uno studente, di cui magari abbiamo sottolineato in verde, come ci suggerisce Lei, una frase o un pensiero ben costruito. Recuperiamo il ruolo delle storie come ‘passaggi’ attraverso la complessità del mondo e del racconto del mondo, del groviglio delle ragioni e dei torti, delle cause e delle conseguenze, della realtà e della sua rappresentazione. Recuperiamo le forme – lessicali, grammaticali, sintattiche – che quelle storie hanno assunto, in uno scrittore di ieri, in uno scrittore di oggi, in uno scrittore italiano o in uno scrittore straniero, per veicolare quei contenuti, per esprimere punti di vista, sguardi diversi sulla realtà, altre idee di mondo. Non sarà difficile ragionare sulle parole, sui costrutti, sui connettivi, sui tempi dei verbi, sulle regolarità e sugli scarti che caratterizzano la lingua dei testi che avremo scelto.

E poi, certamente, parafrasi per i testi poetici, riassunti per i testi narrativi, commenti per sviluppare capacità di analisi, esercizi per potenziare la sintesi, ma anche attività di riscrittura, di trasformazione, di manipolazione creativa del testo originario, che può parlare in un diverso registro linguistico, può assumere un diverso punto di vista, può essere anche solo in parte modificato o integrato da una comunità di lettori e scrittori, ricordando, con Sartre, che “non si è scrittori solo perché si è scelto di dire certe cose, ma perché si è scelto di dirle in una certa maniera”, e quindi sempre mantenendo rigore filologico e consapevolezza della prospettiva storico-linguistica.

Se ci limitiamo a invocare il dettato ortografico finiremo col vagheggiare le gare di spelling. E Dio solo sa quanto poco bisogno abbiamo di emulare ancor di più il modello scolastico angloamericano!

Voliamo più in alto, insieme ai nostri studenti. Trasformiamo la classe in una ‘comunità ermeneutica’, come ci suggerisce Romano Luperini. In un luogo in cui lettura e scrittura costituiscano pratiche narrative e discorsive che attivano processi riflessivi condivisi, cognitivi e metacognitivi, linguistici e metalinguistici, investendo i nostri studenti della responsabilità etica – personale e sociale – di un apprendimento della lingua tanto più efficace quanto più libero di sperimentare, attraverso le pagine della letteratura, tante rappresentazioni, immagini e idee dell’essere umano e del mondo.

Perché in fondorubando le parole di Raul Mordenti, “cos’è infatti la letteratura se non una ipersemantizzazione del linguaggio nei testi, un linguaggio più forte e più denso che vuole dire, e sa dire, più cose? Che cosa è la letteratura se non uno dei massimi sforzi messi in atto dall’uomo di dare un senso alle cose per comunicarle?”


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