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Spremuti, sprecati e discriminati. Assegnisti di ricerca e dottorandi fuori dall’indennità di disoccupazione

Come se non bastassero le prospettive assai incerte e la gimcana del reclutamento, i giovani ricercatori italiani sono oggi sottoposti a un’ennesima discriminazione. La nuova indennità di disoccupazione per cococo e cocopro, infatti, rischia di escludere assegnisti di ricerca, dottorandi e borsisti, nonostante anche loro siano soggetti alla stessa contribuzione previdenziale. #PERCHENOINO? è una petizione al Ministro del Lavoro per denunciare un’incomprensibile esclusione e rivendicare il riconoscimento del proprio lavoro.

22/05/2015
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ROARS

Antonio Bonatesta e Claudia Pratelli

Come se non bastassero le prospettive assai incerte e la gimcana del reclutamento, i giovani ricercatori italiani sono oggi sottoposti a un’ennesima discriminazione. La nuova indennità di disoccupazione per cococo e cocopro, infatti, rischia di escludere assegnisti di ricerca, dottorandi e borsisti, nonostante anche loro siano soggetti alla stessa contribuzione previdenziale. #PERCHENOINO? è una petizione al Ministro del Lavoro per denunciare un’incomprensibile esclusione e rivendicare il riconoscimento del proprio lavoro.

Nell’ambito delle misure previste dal Jobs Act, il Dlgs 22/2015 ha introdotto nel marzo scorso un’indennità di disoccupazione rivolta a collaboratori coordinati e continuativi e a progetto: la cosiddetta DIS-COLL. Sebbene questo nuovo istituto tenti di intervenire su alcune falle del sistema di protezione sociale nel nostro Paese, rimangono ampie le lacune e le ambiguità circa l’intensità del sostegno e la platea dei beneficiari.

Proprio per questi motivi, nei giorni scorsi FLC-CGIL e ADI – Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani hanno lanciato una petizione online indirizzata al Ministero del Lavoro per estendere l’ambito di applicazione della DIS-COLL anche ad assegnisti di ricerca e dottorandi, la cui inclusione tra i beneficiari appare tutt’altro che garantita.

Ma andiamo con ordine.

La DIS-COLL è una parente povera dell’indennità di disoccupazione ordinaria prevista per i lavoratori dipendenti (la cosiddetta NASPI). Povera, perché la prestazione ha una durata ridotta, gli importi sono presumibilmente minori (in quanto riferiti alla media dei compensi dell’anno precedente) e non è riconosciuta una contribuzione figurativa. Parente, perché la DIS-COLL somiglia a un vero sostegno al reddito per i parasubordinati, da sempre assente.

Prima della DIS-COLL, infatti, era in vigore la famigerata “UNA TANTUM”, introdotta da G. Tremonti e M. Sacconi con la legge finanziaria del 2008 e rivolta ai soli collaboratori a progetto, che prevedeva criteri di accesso talmente escludenti (per fare solo un esempio tagliava fuori tutti i co.co.co, cioè i collaboratori del pubblico) da suscitare il sospetto di essere stata pensata più per fini di propaganda che non per soddisfare una domanda di protezione sociale. Non a caso, dei fondi stanziati per il suo funzionamento, ne sono stati spesi solo una minima parte: alla fine del 2013 l’INPS dovette constatare come, in quattro anni, su 200 milioni di euro ne erano stati spesi poco meno di 74.

Rispetto a quest’ultimo istituto, la DIS-COLL costituisce un primo, insufficiente passo in avanti sotto l’aspetto dell’ampliamento della platea dei beneficiari. Restano infatti incomprensibilmente fuori dal suo ambito di intervento diverse figure. E’ esattamente questo il filo rosso che lega la DIS-COLL al suo infelice predecessore: la pletora degli esclusi. Tra questi rischiano di occupare un posto d’onore assegnisti di ricerca, dottorandi e titolari di borse di ricerca, vale a dire la porzione più precaria del popolo dei ricercatori precari delle Università e degli Enti.

Il decreto istitutivo della misura infatti individua come destinatari i: “collaboratori coordinati e continuativi, anche a progetto – con esclusione degli amministratori e dei sindaci – iscritti in via esclusiva alla gestione separata presso l’INPS, non pensionati e privi di partita IVA, che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione”. Questa formula, ampia e non meglio specificata, non chiarisce un dato fondamentale: sono ammessi oppure no i parasubordinati che, pur versando alla gestione separata INPS, hanno un contratto nominalmente diverso dal co.co.co. e co.co.pro.? E per quanto riguarda l’università e gli enti di ricerca: sono ammessi oppure no assegnisti di ricerca, dottorandi e borsisti?

Quella dei collaboratori è soltanto la categoria più nota di un insieme assai più vasto e frastagliato di figure che versano i propri contributi alla Gestione Separata INPS e che, nonostante questo, da sempre sono sprovvisti di tutele sociali. Di questo esercito di parasubordinati, assegnisti di ricerca, dottorandi e borsisti rappresentano una quota per nulla irrisoria: ben oltre 50 mila persone.

Parasubordinati contribuenti Gestione Separata INPS per tipologia contrattuale 2013 (ultimi dati disponibili)

Attività Numero Contribuenti
Amministratore, sindaco di società, ecc. 506.354
Partecipante a collegi e commissioni 12.335
Enti locali (D.M. 25.05.2001) 983
Collaboratore giornali, riviste, ecc. 2.174
Assegno di ricerca, dottorato, borsa di studio erogata da MIUR 52.108
Collaboratore a progetto 502.834
Venditore porta a porta 14.175
Collaboratore occasionale 23.460
Autonomo occasionale 8.288
Collaboratore presso la P.A. 42.527
Altre collaborazioni 23.743
Associato in partecipazione 41.894
Medici in formazione specialistica 28.623
TOTALE 1.259.498

Fonte: Inps

L’ambiguità del decreto, più volte denunciata, non è stata risolta neanche dalla circolare INPS del 27 aprile scorso che ha reso operativa la DIS-COLL e su cui pure era maturata una certa aspettativa, dal momento che nelle pieghe dell’interpretazione della norma si gioca l’inclusione o meno di qualche centinaio di migliaio di persone. La circolare dell’INPS, infatti, riproponendo pedissequamente la dicitura con cui il decreto definisce i beneficiari, ha di fatto rinunciato a fare chiarezza sui coni d’ombra del provvedimento, con conseguenze tanto pericolose quanto già note. Non solo il danno dell’esclusione ma anche la beffa di dover pagare di propria tasca le disfunzioni del sistema. Molti assegnisti e dottori di ricerca, ad esempio, non avranno certamente dimenticato l’incresciosa vicenda – ancora non risolta – dell’UNA TANTUM, quando a fronte della stessa ambiguità normativa le sedi territoriali INPS svilupparono una condotta difforme in merito all’inclusione di queste figure. Chi beneficiò del provvedimento si è poi ritrovato, a distanza di anni sotto, la mannaia della richiesta di restituzione. Scusate, ci eravamo sbagliati!

Ora, il rischio che tutto ciò si ripeta è concreto. E’ il caso di gridare allo scandalo.

Assegnisti di ricerca, dottorandi con borsa e borsisti versano infatti alla Gestione Separata INPS il 30,72% del loro stipendio come contributi sociali e previdenziali, esattamente come co.co.co e co.co.pro, destinatari conclamati della misura.

Non solo. Questi soggetti – che secondo i dati di “Ricercarsi”, indagine sui percorsi di lavoro e di vita dei precari dell’Università, rappresentano più di un terzo del personale della ricerca negli Atenei italiani e diverse migliaia tra i ricercatori degli Enti Pubblici di Ricerca – hanno mediamente retribuzioni basse e sperimentano a pieno la discontinuità dei contratti. Dei contratti e dei compensi, ma non del lavoro di ricerca, dato che come è noto il percorso di ingresso in ruolo è frammentato, molto incerto e implicitamente incentrato sulla richiesta di lavoro gratuito (più ricerca = più pubblicazioni = più chances). Del resto gli ultimi dieci anni raccontano il più grande spreco di competenze prodotto nella storia recente: sempre i dati di “Ricercarsi” raccontano che dal 2004 al 2013 sono stati espulsi dall’accademia oltre il 93% dei ricercatori precari che ci hanno lavorato, con un tasso di reclutamento intorno al 6%. Né le cose sembrano volgere al meglio: la IV Indagine ADI su Dottorato e Post-Doc ha messo in evidenza come, stanti gli attuali livelli di reclutamento, il 96% degli assegnisti di ricerca è destinato ad essere espulso dal sistema accademico dopo uno o più anni di assegno.

L’esclusione di questi soggetti dal sistema di protezione sociale, dunque, risulta esplicitamente discriminatoria, generando di fatto un’espulsione dal perimetro della cittadinanza e della dignità della ricerca. Del resto, rispetto ad assegnisti e dottorandi esiste da anni una questione politica e di coerenza che investe il loro status di ricercatori. La Carta Europea dei Ricercatori, promossa nel 2005 con raccomandazione della Commissione Europea e firmata da tutti i Rettori italiani a Camerino nel luglio dello stesso anno, afferma solennemente il principio di un trattamento equo nei confronti dei ricercatori in ogni fase della loro carriera, dal punto di vista retributivo, previdenziale e delle tutele sociali. In particolare la Carta stabilisce che:

Tutti i ricercatori che hanno abbracciato la carriera di ricercatore devono essere riconosciuti come professionisti ed essere trattati di conseguenza. Si dovrebbe cominciare nella fase iniziale della carriera, ossia subito dopo la laurea, indipendentemente dalla classificazione a livello nazionale (ad esempio, impiegato, studente post-laurea, dottorando, titolare di dottorato-borsista, funzionario pubblico)”

e continua affermando che:

I datori di lavoro e/o i finanziatori dovrebbero assicurare ai ricercatori condizioni giuste e attrattive in termini di finanziamento e/o salario comprese misure di previdenza sociale adeguate e giuste (ivi compresi le indennità di malattia e maternità, i diritti pensionistici e i sussidi di disoccupazione) conformemente alla legislazione nazionale vigente e agli accordi collettivi nazionali o settoriali. Ciò vale per i ricercatori in tutte le fasi della loro carriera, ivi compresi i ricercatori nella fase iniziale di carriera, conformemente al loro status giuridico, alla loro prestazione e al livello di qualifiche e/o responsabilità”.

Il contrasto tra quanto stabilito dalla Carta Europea dei Ricercatori e le parole pronunciate dal Ministro del Lavoro Giuliano Poletti il 13 maggio, in risposta a una specifica interrogazione parlamentare che riprendeva i temi sollevati dalla petizione ADI-FLC, non potrebbe essere più stridente. Nella sua risposta, infatti, il Ministro Poletti dichiara: “[...] in effetti la finalità fondamentale del dottorato e dell’assegno di ricerca non è quella di acquisire prestazioni lavorative dietro pagamento di un compenso ma di consentire al beneficiario della borsa di studio di dedicarsi ad attività di studio e di ricerca, utili a perfezionare il proprio bagaglio di conoscenza ed esperienza, che non danno luogo ad alcun diritto in ordine all’accesso ai ruoli ma costituiscono titolo valutabili ai fini della carriera accademica. Ne consegue che la situazione dei soggetti cui si riferisce l’interrogante non è assimilabile direttamente a quella dei collaboratori coordinati e continuativi, che, come già detto, prestano la loro attività nel contesto di un vero e proprio rapporto di lavoro”.

Da questa vicenda emerge dunque l’ipocrisia che caratterizza l’azione dell’attuale Governo che, in linea con i precedenti, persegue una condotta punitiva verso le istituzioni della conoscenza e di disinvestimento nei confronti dei giovani ricercatori. Attori non protagonisti della retorica dell’innovazione, che li blandisce come leva per lo sviluppo e il rilancio del Paese, e dell’imperituro richiamo alla necessità di trattenere i cervelli, i giovani ricercatori sono invece costretti ad assistere all’ennesimo smacco.

Le condizioni di vita e di ricerca di assegnisti e dottorandi, gli alti tassi di espulsione e la discontinuità di reddito indotta dal lavoro precario nel sistema della ricerca, ci spingono a considerare la battaglia per le tutele sociali di rilevanza fondamentale, al pari di quelle fondamentali per la semplificazione del pre-ruolo e per la riattivazione degli investimenti nel reclutamento accademico, nella ricerca, nelle chances che il Paese si dà di tornare a crescere.

Per tali motivi, ci siamo dati lo strumento della petizione – che ad oggi ha raccolto più di 6.000 firme. Per tali motivi, fortemente insoddisfatti dell’impostazione con cui il Governo ha trattato l’intera questione ma consapevoli della riserva di decidere espressa dal Ministro Poletti, rilanciamo l’impegno di queste settimane con un presidio aperto a tutti, in un giorno che sarà deciso a breve, presso il Ministero del Lavoro, durante il quale consegneremo al Ministro le firme raccolte.

Rivolgiamo un appello ad assegnisti e dottorandi, a alle associazioni, organizzazioni e gruppi informali della comunità accademica nazionale e a tutti coloro che hanno a cuore il destino dei giovani ricercatori e dell’università italiana, affinché si mobilitino in difesa del diritto del Paese a un sistema di welfare non discriminatorio


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