Sos all’Unione europea: «Sosteniamo la ricerca»
Anche il budget europeo per la ricerca è stato penalizzato dalla necessità di fronteggiare l’emergenza legata al Covid-19
di Massimiano Bucchi e Massimo Sideri
Nei loro interventi pubblici durante questa crisi, quasi tutti i leader europei, compreso il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, hanno messo in evidenza l’importanza di investire nella ricerca per rilanciare lo sviluppo economico, l’occupazione e fronteggiare sfide ed emergenze future. Purtroppo a questo coro unanime di belle parole non è seguito un impegno concreto. Anzi, i numeri dicono il contrario. Anche il budget europeo per la ricerca è stato penalizzato dalla necessità di fronteggiare l’emergenza legata al Covid-19: già a luglio gli stessi leader avevano ridotto di quasi 14 miliardi di euro (da 94,4 a 80,9) il totale dei finanziamenti proposto dalla Commissione europea per il programma Horizon Europe. Grazie alla battaglia di alcuni parlamentari, in particolare l’esponente tedesco del Partito Popolare Europeo, Cristian Ehler, si è riusciti a reintegrare almeno una parte di queste risorse. Ora ci sono in ballo 4 miliardi di euro ma la discussione sulla loro destinazione è accesa. C’è infatti chi ritiene che dovrebbero essere spalmati tra le diverse priorità e attività di ricerca, e chi vorrebbe vincolarli a temi specifici come il cambiamento climatico.
Ma c’è soprattutto la posizione di numerosi esponenti del mondo della ricerca e università europee che ritengono che queste risorse vadano utilizzate per compensare almeno in parte i tagli subiti dalla ricerca di base e in particolare dallo European Research Council (Erc) e dal programma Marie Curie. Sono i finanziamenti che vanno su base estremamente competitiva ai progetti più innovativi bottom-up presentati dalle ricercatrici e ricercatori europei e finanziano i più giovani: si tratta del cosiddetto primo pilastro di Horizon, quello della «excellent science», le domande di oggi da cui verranno i risultati e le innovazioni di domani e dopodomani.
La European University Association, che unisce oltre 800 università europee, ha scritto a questo proposito una lettera a tutti i parlamentari europei. Puntare sui giovani è una strategia efficace e razionale non solo per motivi «morali» ma anche per questioni economiche: stiamo trasferendo a loro sempre più debiti, non possiamo non trasferire anche le capacità di creare crescita e occupazione. L’urgenza è anche questa. Peraltro, come si è visto di recente, i ricercatori italiani riescono ad accedere efficacemente agli Erc.
Le grandi potenze Stati Uniti e Cina alimentano pragmaticamente scienza e tecnologia
Insomma, ci sono ottime ragioni per sostenere questa proposta. La prima è che si tratta di un programma e di un tipo di ricerca che è più difficile sostenere per i singoli Stati, anche perché non può essere «attaccato» dai parlamenti quando si tratta di spartire le risorse. L’Europa così diventa una sorta di garante degli investimenti in scienza che non sempre la politica riesce a comprendere e difendere. La seconda, come detto, è che si tratta di investimenti per le nuove generazioni di studiosi, le più penalizzate da questa crisi.
Infine, i dati sull’impatto dei finanziamenti confermano le performances migliori di questi programmi, rispetto a quelli sulla «leadership industriale» e le «sfide sociali», molto sostenuti dalle lobbies nazionali ma dove la formazione di farraginosi consorzi europei ha portato, secondo un recente rapporto, a lasciare incompleti metà degli obbiettivi fissati nel 2014.
Al momento la questione è in stallo, così come tutto il bilancio europeo, a causa dell’opposizione di Polonia e Ungheria, peraltro due Paesi che sono ampiamente beneficiari netti dei fondi di ricerca europei. Così la Polonia si trova a «bloccare» anche i finanziamenti che prendono il nome dalla loro scienziata più famosa, Marie Curie che chiamò polonio uno dei due elementi scoperti da lei e dal marito proprio in omaggio al proprio Paese natale, allora soggiogato dal dominio straniero.
Una politica miope e orientata al breve periodo, ancora una volta, rischia di frenare lo sviluppo della scienza e della tecnologia europea, due campi che sia gli Stati Uniti che la Cina alimentano pragmaticamente. E, per inciso, c’è da domandarsi se ha senso che il veto di una piccola minoranza di Paesi continui a tenere in ostaggio l’Europa e i suoi programmi di ricerca. Sarebbe interessante conoscere la posizione del governo, del Commissario per l’Economia Gentiloni e dei parlamentari europei italiani, al di là dei proclami di facciata su quanto sia bella e importante la ricerca. Perché tra i più penalizzati, ancora una volta, ci saremmo proprio noi.