Sorpresa: il pc a scuola non aiuta a imparare
RicercaOcse: chi lo usa molto ha risultati peggiori, gli studenti con handicap si isolano. Le nuove tecnologie sono utili,ma solo se si rende la didattica interattiva e multidisciplinare
Negli ultimi anni la scuola italiana sta cercando affannosamente di recuperare il ritardo nell’uso di internet e delle nuove tecnologie che ancora la separa da quelle dei Paesi più avanzati. La stessa legge della Buona Scuola dichiara fra i suoi obiettivi primari quello di sviluppare le competenze digitali degli studenti: di diventare, in altre parole, una scuola 2.0.
Finora, lo sforzo principale si è concentrato sugli strumenti informatici: le scuole hanno cominciato a riempirsi di pc, tablet e lavagne interattive. Mentre invece assai più lenti sono stati i progressi in termini di quelle connessioni che permettono a tutte le aule di dialogare con la rete.
Un paio di anni fa, l’Ocse suonò l’allarme, dicendoci che da questo punto di vista segnavamo un ritardo di 15 anni rispetto, ad esempio, al Regno Unito. Naturalmente, però, accrescere le dotazioni tecnologiche e la connettività non è sufficiente. Quandanche le nostre aule fossero perfettamente attrezzate e connesse, resterebbe da rispondere a un quesito fondamentale: come utilizzare internet e le nuove tecnologie affinché gli studenti abbiano risultatimigliori, in termini di conoscenze apprese e competenze acquisite?
E qui arrivano i guai, non solo per l’Italia. Un nuovo rapporto dell’Ocse, che ha studiato la relazione fra uso delle Ict a scuola e i risultati dei test Pisa sulle competenze degli studenti di 15 anni in decine di Paesi, dà conferma autorevole a un sospetto che avevamo da tempo: di per sé le Ict non portano a un miglioramento apprezzabile nelle competenze linguistiche, matematiche e scientifiche degli studenti.
E, ancora, un uso intensivo del computer a scuola porta a risultati significativamente peggiori di chi lo usa moderatamente. O, infine, le tecnologie digitali non servono a diminuire il ritardo degli studenti socialmente meno avvantaggiati: anzi questi ultimi ne fanno spesso un uso eccessivo, che li porta a isolarsi ulteriormente.
Per inciso, a conclusioni simili era giunta la Fondazione Agnelli in uno studio sulla sperimentazione Cl@ssi 2.0 del Miur e nel suo Rapporto sulla scuola 2010. Abbiamo un paradosso.
Da un lato, le nuove tecnologie sono ovunque e, come sappiamo, stanno rivoluzionando la vita quotidiana e il mondo del lavoro, abbattendo confini, trasformando le competenze, eliminando mansioni di routine, facendo nascere nuove industrie: sembra irragionevole che non entrino nella scuola e la scuola non insegni a sfruttarle al meglio per la formazione di un giovane.
Dall’altro lato, la ricerca ci dice che il loro impiego nel processo educativo dà risultati modesti, se non addirittura negativi.
Come si esce dal paradosso? A mio avviso, la risposta è nella qualità dell’impiego delle risorse informatiche. Se si usa la lavagna interattiva come si usava quella di ardesia, se le lezioni continuano a essere quelle tradizionali, se gli studenti rimangono spettatori passivi, sia pure di fronte a un tablet, non ci si può stupire che i risultati non si vedano.
Le tecnologie non sono la bacchetta magica per tutti i problemi dell’istruzione: il problema è quindi la didattica. Internet offre l’occasione per ripensare il modo di insegnare: ma occorre avere il coraggio di abbandonare gli schemi seguiti da decenni, di superare i confini fra le materie, di favorire la partecipazione attiva e critica degli studenti.
La rete è una miniera di informazioni facilmente accessibili, che rende obsoleto il semplice immagazzinare nozioni, ma richiede, più di prima, la capacità di ricercare, di stabilire nessi, di «imparare ad imparare », mettendo le conoscenze apprese al servizio di competenze che dovranno continuamente rinnovarsi per stare al passo con il progresso. Senza un radicale rinnovamento del modo in cui gli insegnanti fanno scuola con le Ict, la rincorsa tecnologica della nostra scuola rischia di essere un inutile e costoso spreco.
Andrea Gavosto* Direttore Fondazione Giovanni Agnelli