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Secolo XIX: Tremonti e l'Università:togli cinque prendi uno

Il cinque per uno: non è un modulo calcistico, è la ricetta tremontiana per l'Università.

03/10/2008
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Il Secolo XIX

Mauro Barberis
In Italia, il problema del momento - crolli della Borsa a parte - sembra la scuola. Tutti intervengono, citano dati, sparano proposte: finalmente. Ma ci sono molte scuole diverse, in Italia: e anche le situazioni sono assai differenti. Ad esempio, i nostri asili e le nostre elementari sono spesso citati a modello nella letteratura internazionale: e infatti proprio lì si è diretto il duo Gelmini-Tremonti, armato di scure come Jack Nicholson in Shining. La scuola media, inferiore e superiore, non brilla certo: ma i licei sono spesso eccellenti, e gli istituti tecnici mediamente disastrosi. Fortuna che tutti sono d'accordo su una cosa: la nostra Università fa schifo. Lavorando nel ramo, vorrei dire la mia su quest'ultimo argomento.
Per comodità, partiamo da un libro appena uscito da Einaudi, "L'Università truccata. Gli scandali del malcostume accademico. Le ricette per rilanciare l'Università", scritto da Roberto Perotti, economista della Bocconi, redattore del sito lavoce.info, e professore alla Columbia di New York. Poiché il lettore - del libro e anche di questo articolo - vuole anzitutto folklore, sbarazziamocene subito. Come esempio della serietà dei nostri concorsi universitari, Perotti cita il caso di Fabrizia La Pecorella, vincitrice di cattedra a Bari nel 2002 senza aver pubblicato una riga, poi direttrice del Secit (Servizio ispettivo e consultivo tributario), infine nominata da Tremonti direttrice delle Finanze. Un fenomeno.
Se tutto il libro fosse così, potrebbe puntare a un premio per l'umorismo; ma per fortuna contiene anche analisi e proposte. Nepotismo, clientelismo e corruzione, riconosce l'autore, nell'Università italiana sono relativamente circoscritti: i veri problemi sono i tre seguenti. Anzitutto, i fondi: è vero che secondo l'Ocse spendiamo poco per ogni studente, quanto il Messico; ma se dal conto si tolgono i fuoricorso, allora la spesa italiana per studente diventa "16.027 dollari, la più alta al mondo dopo Usa, Svizzera e Svezia". Anche gli stipendi dei professori, dopo gli inizi da fame, possono diventare superiori a quelli dei docenti statunitensi: a meno, aggiungo io, che un genovese non vada a insegnare all'Università di Trieste.
Poi, le università italiane sono effettivamente malmesse in quasi tutte le classifiche mondiali: e vantarci che i nostri ricercatori ottengano grandi risultati, una volta fuggiti all'estero, è solo un modo per rigirare il ferro nella piaga. Vero che le classifiche internazionali sono influenzate dalle dimensioni degli Atenei: mentre in Italia abbiamo imboccato la strada rovinosa del "piccolo è bello", portando una sede universitaria in ogni capoluogo di provincia. Poi è arrivato Tremonti con la solita scure, e invece di chiudere gli atenei più piccoli accorpandoli ai maggiori, ha cercato di ottenere lo stesso risultato stabilendo che si può assumere un nuovo docente solo dopo il pensionamento di altri cinque. Il cinque per uno: non è un modulo calcistico, è la ricetta tremontiana per l'Università.
Infine, il tasto più dolente: le rette degli studenti. Alle famiglie sembrano già altissime, a confronto dei servizi resi, ma Perotti sostiene il contrario: le università dovrebbero costare molto di più, e i capaci e meritevoli sprovvisti di mezzi dovrebbero entrare con borse di studio finanziate dalle rette dei loro compagni più abbienti. È anche l'idea di Lanfranco Vaccari, direttore di questo giornale, e non mi stancherò di lodarla: ma solleva un duplice problema di legalità. Come controllare la meritevolezza dello studente povero, se non tramite concorsi più seri degli attuali? E come accertare la povertà dello studente meritevole, se non tramite un fisco che riesca a stanare anche i guadagni dei lavoratori autonomi?


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