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Secolo XIX:: La missione dell'istruzione non è solo fare selezione

Il problema del malessere della scuola italiana esiste da almeno cinquant'anni. Riguarda tuttavia non tanto il problema degli interventi di procedura. Coinvolge e interroga la funzione complessiva che la scuola deve avere nell'ambito della formazione e dell'educazione.

05/10/2007
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Il Secolo XIX

david bidussa
I numeri sembrano dare ragione al ministro Giuseppe Fioroni. Dicono che dopo tredici anni il problema della preparazione adeguata non è stato superato. «Quarantadue studenti italiani su cento - dice il ministro - vengono ammessi con debito alla classe successiva, solo uno su quattro lo recupera, gli altri vanno avanti comunque».
È indubbiamente una fotografia della realtà su cui non si possono pensare dei vaghi ritocchi. Il problema del malessere della scuola italiana esiste da almeno cinquant'anni. Riguarda tuttavia non tanto il problema degli interventi di procedura. Coinvolge e interroga la funzione complessiva che la scuola deve avere nell'ambito della formazione e dell'educazione.
È un problema a cui storicamente si è risposto in vario modo a partire dal 1962, l'anno in cui viene varata la riforma scolastica che espande l'obbligo dell'istruzione a 14 anni. Il modello di intervento che si inaugura allora e che poi in varie forme si è ripresentato ogni qualvolta si è messo mano al sistema scolastico italiano ha lavorato di fatto su due diversi criteri: l'estensione della permanenza nella scuola e la progressiva abolizione delle istanze selettive.
La storia della fuoriuscita dal modello della Riforma Gentile, infatti, è sintetizzabile nella lenta rimozione dei due principi operativi che ne avevano reso possibile il funzionamento: da una parte l'idea di una struttura chiusa dell'istruzione, dall'altra la costruzione di una gerarchia orientata delle discipline e dei saperi.
Nel primo caso, il tema strutturale era la divisione verticale tra comparti liceali e scuole professionali. Non è solo la questione della suddivisione tra scuole rivolte alla formazione di tecnici e scuole pensate per la formazione generale della classe dirigente, ma è soprattutto la convinzione che questa divisione abbia da sola individuato e costituito la classe dirigente. Nell'opinione pubblica, più generalmente nel vissuto interiore di almeno due generazioni di italiani, è indubitabile che il liceo è per tutti il liceo classico.
Nel secondo caso quella suddivisione che di fatto selezionava e chiudeva strade professionali a-priori, stabiliva che la formazione della classe dirigente nasceva da una gerarchia delle discipline, da una priorità di alcuni saperi rispetto ad altri.
Nella scommessa intrapresa da Giovanni Gentile a metà degli anni '20 non c'era perciò solo la costruzione del doppio binario educativo: c'era anche l'idea che quello fosse legittimato e legittimasse, al tempo stesso, una priorità delle cose da sapere. Tra le cose che non era prioritario sapere o che al massimo venivano considerate "sapere manuale" stava gran parte delle discipline scientifiche ridotte sostanzialmente a sapere tecnico.
È per questo che, per quanto i numeri diano ragione alla richiesta di una maggiore severità o di un maggior controllo e dunque alludano nei fatti a una sorta di lento ritorno a un modello passato, quel ritorno, anziché costituire un'ipotesi concreta di riforma efficace, si presenta come la politica dell'affidamento a un ipotetico e problematico "portafortuna (una sorta di non dichiarato "io speriamo che me la cavo") che non consente di essere eccessivamente ottimisti. Perché appunto il problema della scuola non è solo tornare a esprimere una selezione, ma anche costruire un modello di acculturazione che rimette in questione la gerarchia dei saperi e dunque ricostruisce una didattica in cui finalmente l'ambito delle scienze cessa di essere una presenza tecnica e acquista la dignità di sapere scientifico.
Al centro non sta dunque solo la selezione, ma stanno i programmi, la consapevolezza che la creazione di una classe dirigente non passa solo per una "scuola restaurata" dove si reintroducono i buoni costumi di un tempo o dove i problemi si risolvono con un escamotage a effetto. Poi servono le politiche di investimento sulla formazione e degli insegnanti; la consapevolezza che quello dell'insegnante è un mestiere, non un nemico delle famiglie degli alunni legittimate a dire e fare tutto; che occorre una scelta sui programmi che non sia solo un'operazione di maquillage o un ospite d'onore che risolleva lo share.

05/10/2007
Andrea Ranieri
Innanzitutto occorre sgombrare il terreno da un luogo comune: quello che la scuola è tanto più seria quanto più boccia, tanto più capace di valorizzare il merito quanto più ragazzi lascia per strada. La citatissima analisi Ocse-Pisa sui livelli di apprendimento degli studenti dei Paesi Ocse ci dice che le nazioni i cui ragazzi apprendono di più in lingua, in scienze, in matematica - la Finlandia, la Svezia, etc... - sono anche quelle che riescono a portare al diploma di scuola media superiore più del 90% dei ragazzi. Le nazioni che per livello di apprendimento stanno peggio di noi - che stiamo malissimo, al 28° posto per livelli di apprendimento, il 30% di dispersione scolastica - sono anche quelle in cui più alta è la percentuale di studenti che abbandonano la scuola senza aver conseguito né un diploma né una qualifica professionale.
La qualità, nella scuola come in qualunque altro luogo, è appropriatezza. È saper valorizzare le diverse intelligenze di ciascun allievo, aver cura delle eccellenze e delle difficoltà. Non sprecare nessun talento, non abbandonare nessuno a un futuro di marginalità culturale e sociale è forse la priorità assoluta di un Paese in cui i giovani diminuiscono, e che ha una percentuale di diplomati e di laureati sul totale della popolazione lavorativa inferiore a qualsiasi altro Paese sviluppato. La scarsa dotazione di capitale umano, ce l'ha spiegato Mario Draghi, è ormai il limite più grande allo sviluppo del Paese. Ma la meno appropriata delle politiche per raggiungere questo obiettivo è il lassismo, è il lasciare accumulare le carenze di apprendimento, i "debiti", senza porvi rimedio. Dà solo l'illusione della crescita della scolarità e dell'eguaglianza. Illusione che prima o poi gli stessi ragazzi pagano: o non riuscendo a finire le superiori, o "disperdendosi" all'Università, o portandosi dietro per tutta la vita una carenza di competenze che è, nella società della conoscenza, il fattore più grande di diseguaglianza.
È, ahimé, l'andazzo del tempo presente. Oltre il 60% dei ragazzi in debito, non partecipano ad alcuna attività di recupero spesso perché non esiste da parte delle scuole nessuna offerta in tal senso. Gran parte di loro arriva alla maturità portandosi dietro i debiti anno dopo anno, con una punta altissima - ed è un segno dello scarso conto in cui è tenuta in Italia la cultura scientifica - in matematica.
Ma non andavano bene, a questo fine, nemmeno i vecchi esami di riparazione. Si limitavano infatti a prendere atto delle carenze, rinviando alle famiglie e a soggetti esterni la soluzione del problema, attraverso le ripetizioni estive. È noto che le fa chi ha i mezzi per farle, e comunque i figli delle famiglie più attrezzate culturalmente e socialmente. Con ciò aggravando il dato forse più preoccupante della scuola italiana, quello che collega il successo o l'insuccesso scolastico alle condizioni socio-culturali della famiglia d'origine.
Le misure proposte dal ministro Fioroni vanno in un senso diverso. (Consiglierei per questo ai suoi comunicatori di non usare più la formula del ritorno agli esami di riparazione del passato). Si propongono di vincolare le scuole a effettuare - a partire dal primo scrutinio intermedio, durante l'anno scolastico - attività didattiche mirate al recupero dei debiti, da proseguire ove necessario nel periodo estivo, e di verificare il recupero a inizio anno, subordinando ad esso il passaggio alla classe successiva. Questa impostazione richiede per le scuole risorse economiche e organizzative, che già la prossima Finanziaria dovrà rendere disponibili. Richiede una capacità degli insegnanti di riflettere sul proprio lavoro, di aggiornarlo e riqualificarlo alla luce di questo impegno, che funziona solo se non viene considerato un'attività marginale o puramente aggiuntiva. Sarebbe anzi opportuno, nel momento in cui nel prossimo contratto di lavoro si ragionerà (per lo meno si spera) di carriera professionale degli insegnanti, di assumere l'impegno nelle attività didattiche di recupero come un elemento importante della valutazione della professionalità dei docenti.
Naturalmente tutto questo sarà possibile se anche le famiglie e gli studenti assumeranno queste misure come un loro obiettivo, e richiederanno alle scuole verifiche puntuali delle attività svolte. Infatti solo la scuola che si impegna seriamente nelle attività di recupero dei debiti, ha titolo a valutare se il recupero è avvenuto.
Agli studenti, soprattutto a quelli di sinistra, consiglierei di non scegliere la difesa dell'esistente. Colmare i debiti di chi sa di meno, valorizzare il merito, è una condizione per fare della scuola un canale di mobilità sociale, a favore dei figli delle famiglie più disagiate. Difendere la scuola lassista porta acqua a un'idea del vivere giorno per giorno, che mette il consumo al di sopra del lavoro e dell'impegno, a quella cultura dell'eterno presente che è il peggior nemico del loro futuro.
Andrea Ranieri, senatore, è responsabile nazionale dei Ds per scuola, università e ricerca.


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