Secolo XIX: L'arte del lavorare bene si trova anche in una poverascuola "professionale"
Molti professori hanno scelto di insegnare fra la "perduta gente" e invecchiano nelle delusioni
MAURIZIO MAGGIANI
Giovedì ho passato un'intensa, istruttiva mattinata in una scuola professionale per meccanici. Cerco di andare sempre quando mi invitano per una conversazione in una scuola; sono curioso, voglio vedere con i miei occhi se questa generazione di ragazzi è fatta di debosciati e perduti come si ama ripetere dalla debosciatissima e perdutissima generazione che li ha partoriti, o se sono, per dirla con gli immortali Nomadi "una speranza appena nata".
Da un punto di vista puramente egoistico sarei molto più interessato alla seconda ipotesi; so che ormai non sarò io a costruire il Nuovo Mondo, ma mi sarebbe di gran conforto, prima di lasciare quello vecchio, almeno vedere all'opera chi potrà farlo; chi avrà voglia, forza, coraggio, abnegazione e fantasia di cui mi sono decenni fa vantato e che oggi, a conti ormai fatti, altro non sono stati che vanteria. Vado in ogni genere di scuola superiore, e questa volta ho accettato l'invito da una di quelle che la signora Moratti, a suo tempo, aveva destinato all'immondizia. Ho fatto alcune iNteressanti scoperte, o riscoperte.
Gli insegnanti, chi accetta o è costretto ad insegnare in un professionale. Un terzo di tecnici e professori di grandi capacità e sensibilità, giovani, altamente motivati, con bagagli culturali adatti a licei e sofisticate ricerche, laureati e abilitati con il massimo dei voti. Vi sembrerà strano, ma parecchi tra loro hanno scelto di insegnare proprio lì, tra la perduta gente; credono in quello che fanno, invecchiano precocemente nelle delusioni quotidiane, si esaltano dei successi, friabili e temporanei. Un terzo di doppiolavoristi, professionisti amanti delle "marchette" statali e del riposante sostare in classe. È il genere di insegnante che all'incalzare degli "entusiasti" sospira: "ma perché volete perdere del tempo con queste bestioline"? Metto tra virgolette perché la citazione è fedele. In cambio di un compenso hanno accettato di avere un distaccato contatto con degli animali.
Un terzo infine di supplenti cronici o saltuari. Giovani o giovanissimi laureati che per la gran parte hanno sogni e ambizioni distanti dall'insegnamento, ma che ci si rassegnano, visto che è relativamente facile accedervi quando si accetta un professionale. "Fanno la stagione" per così dire, come altri la fanno in una pizzeria o in un albergo. Ci trovi tra loro bravi ragazzi e ragazze impauriti e smarriti, agnelli sacrificali dei più tosti tra gli alunni. C'è chi, tra loro, constatata l'impossibilità di ottenere in altro modo l'attenzione degli studenti, ci prova con il perizoma.
Gli studenti, già. Li guardi, prima ancora di scambiare una parola con loro, e il pregiudizio ti fa pensare che stai per intrattenerti con dei giovani criminali. Loro ricambiano lo sguardo e ti chiedi se non siano invece per caso dei giovani eroi. Forse perché nelle due categorie la natura dello sguardo non cambia; è lo sguardo di chi sa qualcosa di più e quel di più non è così piacevole. Molti sono ripetenti e pluriripetenti; sanno che vivono nel niente e sono destinati a finire nel niente e accettano la scuola come una parte del niente. Il professionale non è più una scuola rigidamente classista; oggi il niente è in pieno rigoglio anche tra chi "sta bene". Ho incontrato ragazzi di 16 o 17 anni che non vedono mai i loro genitori: entrano in casa gli uni, escono gli altri.
La scuola di giovedìè in una zona molto ricca e di piena occupazione; lavorano tutti in famiglia, lavori da niente che portano via il tempo per tutto. Anche quei ragazzi andranno a fare un lavoro da niente, se lo faranno con un diploma, meglio così.
Il fatto è che quando incomincio a parlare mi stanno a sentire. E continuano a farlo per un'ora e mezza: record della pista. Gli insegnanti mi hanno avvisato che quella è gente che fa saltare in aria i banchi se si stufano. Non si sono stufati, anche se il tema era nientepopodimeno che "la bellezza". La bellezza generata dal far bene le cose, farle bene con le mani, farle bene con la testa, con il cuore, addirittura.
Sì, sono giovani eroi; forse anche giovani criminali. Basta un niente perché siano l'una o l'altra cosa o ambedue, e quel niente non dipende da loro. Certamente potrebbero diventare dei bravi meccanici se ne avessero voglia. Ma nel caso ne avessero voglia, potrebbero diventarli se la scuola ha una dotazione da officina degli anni '70? Se le ambizioni "meccaniche" sono quotidianamente frustrate dalla carenza delle risorse?
Un gruppo di studenti progetta e costruisce microautomobili a pedali per un singolare e divertente campionato europeo; non vincono mai, non si piazzano mai, perché i loro colleghi degli altri paesi costruiscono in titanio e fibre di carbonio e loro in ferro e alluminio. Un istituto meccanico francese investe 30.000 euro all'anno nel suo prototipo, loro 500, 600.
E se poi assieme alla voglia, avessero pure i mezzi, non sono sicuro che intorno a loro ci sia l'imprenditore che sta cercando bravi meccanici. Potrebbero diventarlo, giovani uomini e donne che sappiano fare le cose a regola d'arte. A loro ho visto che la bellezza interessa e appassiona, ma quanti imprenditori hanno passione per fare le cose a regola d'arte, passione per la bellezza?
01/04/2007