Se le società internazionali bocciano scuola e università
Duro documento degli investitori esteri: il sistema continua a formare professionalità non richieste dal mercato
Alessandra Ricciardi
Tutti bravi a predicare che la ripresa economica passa attraverso la conoscenza. Il sistema formativo italiano, a dispetto delle reiterate riforme dell'ultimo decennio, continua a sfornare professionalità che non sono richieste dal mercato del lavoro. Con un effetto deleterio che piace assai poco ai mercati esteri: crea nuova disoccupazione, e spesso di alto livello, lasciando scoperti i profili di cui le aziende avrebbero bisogno.
A criticare la scuola e l'università made in Italy sono le società internazionali, aderenti al comitato investitori esteri di Confindustria, in un documento presentato la scorsa settimana a Milano e realizzato in collaborazione con Eni. Del gruppo fanno parte società come Alcatel-Lucent, Alstom, American Express, Bristol Meyers Squibb, British Petroleum, Edf, General Eletric, Honda, Shell, Novartis. Il comitato confindustriale, presieduto dal presidente dell'Eni Giuseppe Recchi, ha stimato che rispetto al numero di laureati che le società sono disposte ad assumere restano scoperti 19.700 posti da ingegneri, 14.600 di esperti economico-statistici, 7800 medici, 3.800 dell'area giuridica. Le università continuano invece a formare in eccesso rispetto alle richieste delle aziende laureati nel settore politico-sociale (14 mila di troppo, nel campione confindutriuale), 10.200 nelle materie letterarie, 7 mila per il settore linguistico, 3.700 in architettura, 3.200 nell'ambito geo-biologico, e poi seguono quello scientifico, quello agrario e gli insegnanti. Certo il tutto è parametrato rispetto ai fabbisogni di colossi internazionali, ma altre indagini, da quelle annualmente realizzate da Almalaurea per esempio, emergono analisi non troppo dissimili. «Nonostante la riforma del 3+2 abbia permesso l'aumento di laureati nel paese», si legge nel report coordinato da Pietro Guindani, presidente Vodafone Italia, «le imprese con un orizzonte operativo globale spesso faticano a indentificare profili adeguati rispetto alle esigenze poste dal contesto internazionale e a inserirli rapidamente in azienda». Lo studio conferma che esistono al tempo stesso un surplus e un deficit di professionalità, che si traduce in uno spreco di risorse e in opportunità mancate. «Il problema è l'orientamento professionale fatto già a scuola, sia per quanto riguarda la scelta dell'università».La proposta dei grossi investitori è di «migliorare l'orientamento coinvolgendo le aziende internazionali nel programma Orientagiovani», per esempio, «in questo caso le aziende potrebbero essere testimoni concreti del valore dell'istruzione di secondo livello e universitaria orientata alle discipline tecniche e scientifiche che rappresentano la parte preponderante del mismatch tra domanda e offerta di competenze». E poi puntare a «migliorare l'avviamento al lavoro degli studenti sia della scuola secondaria che universitari». Come? In primo luogo con lo sviluppo di programmi di studio (come gli Its, gli istituti tecnici superiori «che necessariamente prevedano percorsi di apprendimento e ricerca da svolgersi in forte collaborazione con le imprese».
C'è poi un problema di provincialismo della scuola e dell'università italiane. Gli atenei non sono capaci di attrarre i migliori studenti e studenti internazionali. Ecco perché per i confindustriali attivare cattedre nella sola lingua straniera sarebbe un primo passo fondamentale. Per rendere internazionali gli italiani. E attrarre stranieri.
Carente anche la formazione in azienda a causa di quell'incertezza e farraginosità dei fondi di finanziamento europei e regionali. «Il problema non è di mancanza di fondi ma di accesso a quelli già disponibili e di utilizzo per migliorare la produttività del sistema paese».
Per semplificare l e procedure, Confindustria pensa a un ufficio di supporto all'accesso ai fondi presso le proprie unità regionali o provinciali. Tanto per cominciare.