Se la questione di classe riappare sui banchi di scuola
La pessima gaffe dell'istituto romano ha diversi precedenti. Il più famoso è quello del Liceo Visconti che un paio di anni fa vantava studenti della borghesia medio-alta, residenti in centro , «tutti di nazionalità italiana, tranne un paio, e nessuno diversamente abile». A
Flavia Perina
Eccola lì, la vecchia questione di classe che si riaffaccia a dispetto della rimozione dal vocabolario della politica e della cultura. Eccola lì, nero su bianco sul sito ufficiale dell'Itc di via Trionfale a Roma, quattro sedi, quattro enclave censitarie descritte nel dettaglio: nel plesso principale e in via Taverna ci sono gli alunni di «famiglie del ceto medio-alto»; in via Assarotti, più popolare, bambini di «estrazione sociale medio-bassa» e molti «con cittadinanza non italiana»; in via Vallombrosa si istruiscono i figli «dell'alta borghesia» e dei suoi dipendenti, «colf, badanti, autisti e simili». La descrizione è stata cancellata ieri, dopo una pubblica polemica che ha obbligato all'intervento il neo-ministro dell'Istruzione Lucia Azzolina – «raccontare la propria popolazione scolastica per censo non ha senso» – e tuttavia la questione di classe resta lì, conserva tutta la sua concretezza, interroga noi adulti.
La scuola elementare e media di via Vallombrosa è stata molto tempo fa la mia scuola e anche allora ci andavano, insieme, i figli dei professionisti e i figli dei portieri (ancorché, all'epoca, tutti italiani). Bambini che arrivavano con la scorta – si era negli anni dell'Anonima Sequestri – e altri col cappotto troppo lungo, ereditato dei fratelli maggiori. Non ho mai sentito nessun insegnante fare riferimento al censo e noi stessi ne eravamo consapevoli ma giudicavamo la questione tabù. Le distinzioni erano tra secchioni e sfaticati, ritardatari e puntuali, al limite quelli col diario Vitt e quelli col diario Linus. Il censo esisteva, certo, ma costituiva un discrimine assai relativo nell'istruzione primaria e secondaria. Almeno fino all'inizio del liceo si era tutti uguali e anche le famiglie consideravano vantaggiosa, utile, un'esperienza educativa interclassista.
Il sito dell'Itc Trionfale ci dice quanto quell'antico paradigma sia superato e come l'indicazione dello status sociale sia diventata elemento di giudizio importante per i genitori e per la scuola, tanto che qualcuno ha ritenuto necessario indicarlo con brutalità. Ci si interroga sulla qualità degli insegnanti ma anche (soprattutto?) sulla provenienza dei possibili compagni di banco. L'interclassismo è considerato una minaccia, forse da entrambi i poli nella scala dei redditi: in basso si teme l'emarginazione del brutto anatroccolo; in alto si ha paura della contaminazione col disordine e l'affanno dei poveracci.
La pessima gaffe dell'istituto romano ha diversi precedenti. Il più famoso è quello del Liceo Visconti che un paio di anni fa vantava studenti della borghesia medio-alta, residenti in centro , «tutti di nazionalità italiana, tranne un paio, e nessuno diversamente abile». Anche allora successe un putiferio, presto derubricato a gaffe nella comunicazione, come probabilmente avverrà pure stavolta. Forse è troppo impegnativo ammettere che l'energico incipit dell'articolo 34 della Costituzione – «La scuola è aperta a tutti» – dettato a presidio di una scolarizzazione universale oltre le classi, il censo, il reddito, nell'età delle diseguaglianze sta cambiando segno: aperta a tutti, ma stando attenti a non mischiarsi troppo. —