Se i quiz salgono in cattedra a scuola
Giorgio Israel
NON si può che ammirare chi ha il coraggio di sedersi su una poltrona difficile come quella della Pubblica Istruzione. Da anni ogni ministro riceve in dote dal precedente un’eredità sempre più pesante, per l’accumularsi di problemi aggravati da mediocri compromessi politico-sindacali e da cattive riforme ispirate all’ideologia anziché al buon senso, una merce ormai rara nel sistema dell’istruzione. Quindi l’unica via per un ministro è perseguire il difficile dosaggio tra una grande determinazione nel tagliare nodi aggrovigliati fino all’inverosimile e una grande saggezza nel tener conto di esigenze tutte rispettabili.
È una miscela necessaria di fronte al lascito di personale scolastico precario e all’esigenza di aprire una porta ai giovani; perché un sistema dell’istruzione che non sia alimentato da nuovi apporti innestati con continuità sulle esperienze precedenti è destinato a sicuro declino. Inoltre, occorre por fine alla prassi disastrosa dell’immissione in ruolo di nuovi insegnanti senza verifiche di merito. Pertanto, la scelta del ministro Profumo di ripartire un contingente di posti per metà al fine di sanare le situazioni pregresse e per l’altra metà per far svolgere un concorso, va considerata come una decisione coraggiosa ed equilibrata. Purtroppo le buone intenzioni non bastano.
Pare che il concorso sarà riservato agli abilitati, il che, in linea di principio, è sacrosanto. Ma nei fatti non si conferiscono abilitazioni da anni né si avranno nuovi abilitati – con i Tfa, Tirocini formativi attivi – prima di un anno, per cui si rischia di fare una sola cosa, ossia assumere precari, con due modalità diverse. Non sarebbe meglio far svolgere il concorso al termine del primo anno di Tfa? Si è anche proposto di aprirlo agli ammessi ai Tfa, sotto la condizione che conseguano l’abilitazione.
Ad ogni modo, una soluzione va trovata, altrimenti i più giovani si troveranno di fronte alla solita porta chiusa, che tale resterà per chissà quanto tempo. Difatti, sarebbe un miracolo se il proposito di bandire concorsi «leggeri» a brevi intervalli finalmente si realizzasse.
Sorvoliamo sui problemi enormi che pone un concorso «pesante», soprattutto se aperto da un test preliminare di «scrematura», indispensabile dato il numero enorme dei candidati. Si è parlato di un test unificato per tutte le classi di concorso mirato alle capacità «logico-deduttive» il che suscita allarme, soprattutto ove si pensi ai disastri passati dal concorso per dirigenti scolastici a quello per i Tfa. Ma lasciamo da parte la tematica dei test per porre un problema più generale di cui essa è solo un aspetto.
Di anno in anno, gli adempimenti e le verifiche che si accumulano sul sistema scolastico crescono come una palla di neve che diventa valanga. La quantità di scartoffie che incombono su insegnanti e dirigenti cresce esponenzialmente. Ora si prospetta l’autovalutazione delle scuole mediante griglie fornite dal ministero, poi la valutazione mediante commissioni ispettive gestite dall’Invalsi (l’Istituto di valutazione del sistema scolastico), poi la formazione in servizio gestita dell’Indire (l’Istituto di documentazione e ricerca educativa) e così via. Un’immensa macchina burocratico-amministrativa si appesantisce sempre di più sulla scuola. La massa di prescrizioni e direttive si infittisce lasciando sempre meno spazio alla libertà metodologica personale, e restringendo il tempo dedicato all’insegnamento propriamente detto.
Nell’ambito della politica economica è difficile trovare chi sia contrario alla crescita: ma poi ci si divide (anche in modo politicamente trasversale) sull’idea se vada perseguita con interventi dirigisti o rimuovendo i vincoli che intralciano lo sviluppo delle forze produttive. Non diversamente nel campo dell’istruzione: c’è chi pensa che la crisi della scuola si possa superare con un controllo sempre più stringente dall’esterno – da parte di «tecnici» – e chi pensa che occorra mettere in atto solo i meccanismi che favoriscono l’emergere delle forze migliori. Per i primi la valutazione del merito si fa a monte, per i secondi a valle. I primi vedono il ministero come un controllore onnipresente, i secondi gli attribuiscono il ruolo di favorire discretamente e costruttivamente l’evoluzione positiva del sistema.
Il ministero italiano, per una lunga tradizione, propende a un dirigismo che sta diventando ipertrofico, parossistico, ed è sostenuto da ideologie didattiche soffocanti. Non esitiamo a dire che sarebbe auspicabile che il ministro si orientasse a contrastare tendenze più adatte a un paese totalitario che a una democrazia liberale. Si risolverebbero così anche tanti disastri (si pensi ancora ai test) che sono conseguenza del potere eccessivo di «esperti» che valutano il «prodotto» senza sapere cosa contiene, e cioè sulla base di analisi statistiche e dati quantitativi e formali nell’ignoranza completa dei contenuti in gioco.
Non è elementare buon senso che prima di escogitare rimedi per la scuola si faccia un’analisi dei suoi mali? E chi ha mai fatto una simile analisi in modo serio, ovvero sui contenuti, e non limitandosi a statistiche di dubbia interpretazione? Per esempio: chi ha mai fatto un’analisi seria dei contenuti che circolano nei libri scolastici? E questo non per imporre questo o quel modo di insegnare ma per aprire un dibattito di merito che solo può far migliorare la qualità dell’insegnamento.
Inutile dire che, oltre ad avere buoni testi, vorremmo avere buoni insegnanti. Il ministro ha recentemente proposto la sua visione di come deve essere un buon insegnante. A noi pare che sarebbe meglio non impelagarsi nel tentativo di definire una figura tanto complessa. Tuttavia, se proprio dovessimo scegliere la definizione preferita, ricorderemmo quella di Hannah Arendt: l’insegnante è colui/colei che «si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la responsabilità. Di fronte al ragazzo è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini della terra che indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo». E così facendo – osserva Arendt – fornisce al giovane gli strumenti per avanzare liberamente con le proprie gambe.
Secondo il ministro l’insegnante deve saper stabilire e gestire buone relazioni con gli studenti, saper stare bene in classe, e alternare la sua posizione di docente con quella di discente, lasciando talora la cattedra agli allievi. A parte quest’ultimo aspetto che riporta a sessantottismi di cui non v’è proprio bisogno, la figura che emerge è quella del «facilitatore» nell’ideologia dell’autoapprendimento. Sapere star bene in classe e gestire bene i rapporti con gli allievi è molto importante, ma non crediamo che si tratti di una scienza codificabile.
Colpisce l’omissione di un requisito cruciale: che l’insegnante sia colto, che conosca la sua materia. Tolto questo, tanto varrebbe affidarsi a Pippo Baudo, che certamente ne sa più di certi teorici dello «stare in classe», che propinano i loro precetti nel modo più noioso, cattedratico e trasmissivo che si possa immaginare. Abbiamo il ricordo di insegnanti non molto capaci di gestire la classe, ma dotati di una cultura tale da lasciare una traccia indelebile sugli allievi; ed altri, brillanti e simpatici quanto vacui.
Migliorare il mondo dell’insegnamento si può. Mettere le brache al mondo è tipico delle visioni illiberali. Se poi riduciamo i contenuti dell’insegnamento a un «optional», a qualcosa che può essere «costruito» pescando indifferentemente ovunque, senza distinguere tra libri seri e Wikipedia, possiamo scommettere sul definitivo declino della scuola italiana.