Se i nostri ricercatori scelgono di giocare all'estero
Vanno via 10 vincitori di fondi europei su 17
Ma ve l'immaginate se 35 su 36 dei giovani fuoriclasse del calcio europeo decidessero di giocare dappertutto meno che da noi? Apriti cielo! Titoloni. Articolesse. Dibattiti infiniti. Eppure è quanto accade nella Ricerca. Dove l'Italia viene scelta solo da 8 dei 287 vincitori dei fondi distribuiti dal Consiglio europeo della ricerca. Una umiliazione. E la ferita è resa ancora più sanguinante dal fatto che perfino la maggioranza dei prescelti italiani ha deciso di giocarsi i soldi e il futuro altroveIl punto di partenza per capirci qualcosa è una tabella dell'European Research Council. Dove si spiega come l'organismo della Ue dedicato al supporto della ricerca abbia moltiplicato per sei volte, in questi anni di crisi, il proprio bilancio: da 300 milioni nel 2007 a un miliardo e 700 milioni oggi. L'opposto della scelta fatta dai vari governi italiani, convinti che più i soldi scarseggiavano più andavano tagliate le spese per la cultura, i laboratori, le intelligenze.
Bene: buona parte di questi denari europei sono usati per finanziare progetti da portare a termine all'interno dello spazio Ue con l'aggiunta di Israele. Denari veri. Che non vanno a carrozzoni e carrozzelle clientelari che magari esistono solo burocraticamente ma a ricercatori in carne e ossa che presentano lavori e idee e intuizioni passati al setaccio da una commissione internazionale. Gente seria, che non lascia aperto neanche un pertugio ai figli del rettore Tizio, al cugino del preside Caio o al cognato del barone Sempronio. Conta solo il merito. Contano solo le idee.
Una quota delle ricche borse di studio dette «starting grants» (un milione di euro e più per quattro anni, che il «principal investigator» può spendere non solo per se stesso e lo studio ma anche per prendere qualche collaboratore) è destinata a giovani studiosi con meno di sette anni di anzianità dal conseguimento del dottorato, un'altra («senior grants») ai più anziani. Progetti finanziati dal 2007: oltre 3.400.
Gli italiani finora, a dispetto dell'insensata taccagneria che da decenni caratterizza la politica su questo fronte, se l'erano sempre cavata. Scriveva nel 2008, sul Sole 24 ore, Salvatore Settis, uno dei membri del ristretto consiglio dell'Erc che aveva fissato le regole: «Sia negli starting grants per i più giovani che negli advanced grants, l'Italia è stata prima per numero delle domande: 1.760 su 9.167 nel primo caso (19,2%), 327 su 2.167 nel secondo (15%): sicuro indicatore che il Paese abbonda di ricercatori di ogni età, ma anche che essi disperano di trovare in patria i finanziamenti necessari».
Risultato finale? «Negli starting grants, i vincitori italiani sono 35, al secondo posto dopo la Germania, precedendo Gran Bretagna, Francia e Spagna; è dunque chiaro che l'Italia ha offerto a questi studiosi (età media: 35 anni) adeguata formazione e ambiente di ricerca. Se però si guarda alle sedi di lavoro scelte dai vincitori, l'Italia precipita al quinto posto. Dei 35 vincitori italiani, solo 23 resteranno in patria, gli altri (coi loro fondi europei) preferiscono altri Paesi con migliori strutture di ricerca».
Urlavano già le sirene, per quell'allarme. Ma i nostri uomini di governo (non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire) hanno fatto spallucce. Basti rileggere la tabella dall'«Annuario Scienza e Società 2013», a cura di Federico Neresini e Andrea Lorenzet: ogni mille occupati i ricercatori sono 17 in Finlandia e Islanda, 12,6 in Danimarca, 12,4 in Nuova Zelanda, 11,1 in Corea, 9,5 negli Stati Uniti, 9,1 in Francia, 8,5 in Germania, 6,3 in Russia e 4,3 da noi. Siamo trentatreesimi, in questa classifica. E addirittura trentaseiesimi in quella degli stanziamenti rispetto al prodotto interno lordo. Miopia.
Una miopia rifiutata, ad esempio, da Barak Obama: «In un momento difficile come il presente, c'è chi dice che non possiamo permetterci di investire in ricerca, che sostenere la scienza è un lusso quando bisogna dare priorità a ciò che è assolutamente necessario. Sono di opinione opposta. (…) Per reagire alla crisi, oggi è il momento giusto per investire molto più di quanto si sia mai fatto nella ricerca applicata e in quella di base...»
Certo è che, al netto di ogni casualità (un anno può andar diritto, uno storto) la situazione è precipitata. Per carità, esistono delle eccellenze. Ed è giusto che la Bocconi sia fiera di gestire nel suo settore «10 progetti in economia, finanza e management, al primo posto insieme a Toulouse School of Economics (10 progetti) e davanti a University College London (8)». Ma il panorama è da incubo.
Scrive su «lavoce.info» Tullio Jappelli, economista della Federico II che «già in passato il Bel Paese non aveva brillato per attrattività: solo il 7% dei vincitori aveva scelto di utilizzare il grant in Italia, circa il 15% dei ricercatori aveva scelto la Francia e la Germania, mentre il 20% l'Inghilterra». Ma la nostra percentuale, come dicevamo, è calata ancora e dal 7% siamo precipitati al 2,7%. Il che, per un Paese di sessanta milioni di abitanti che si vanta di avere dato i natali a immensi scienziati del passato, è avvilente.
Come spiega Jappelli, infatti, «i risultati pubblicati ieri per i junior grants evidenziano che tra i 287 ricercatori che lo hanno vinto 60 hanno scelto di lavorare in Gran Bretagna, 46 in Germania e 32 in Israele. Per noi non sono buone notizie: solo 8 ricercatori hanno scelto l'Italia come sede della propria ricerca. Tra gli 8, un solo straniero ha deciso di lavorare in Italia. Infine altri 10 italiani hanno vinto il grant, ma hanno deciso di utilizzarlo in altri paesi».
È questo che più brucia. La consapevolezza che non solo i vincitori delle borse di studio dell'Erc che hanno scelto l'Italia sono un ottavo (e meno male che c'è uno straniero...) di quelli che hanno scelto la Gran Bretagna, un sesto di quelli che hanno scelto la Germania, un quarto di quelli che hanno scelto Israele e quasi la metà (che vergogna...) di quelli che hanno scelto la Spagna. Ma che perfino 10 su 17 dei «nostri» vincitori, pur avendo per una volta l'opportunità di restare, scelgono di andarsene.
Chi li ha cacciati in questa sacca nera di pessimismo dovrebbe non dormirci la notte. E prendere questo cazzotto come l'occasione per cambiare marcia.
Gian Antonio Stella