Se gli stranieri preferiscono la scuola pubblica
Scelta anche da chi può pagare rette elevate: «Si evita la ghettizzazione»
MILANO - Si sono arresi davanti ai sette menu della mensa, compresi sushi e macrobiotico: un po' troppo per dei bambini delle elementari. «Non è stata una questione di soldi. Abbiamo soltanto pensato che quella non fosse la vita vera», hanno spiegato al New York Times Miriam e Christian Rengier, genitori tedeschi in trasferta nella Grande Mela, che hanno scelto per il loro figlio una scuola pubblica e non la prestigiosa privata. Decisione condivisa dal 68% delle 15.500 famiglie straniere a Manhattan che guadagnano almeno 150 mila dollari l'anno. Manager che potrebbero tranquillamente pagare la retta. Ma per loro è meglio il rischio di lost in translation, piuttosto che far crescere i figli in un altro mondo, perdendo il contatto con la realtà.
Come ha fatto qui in Italia Lee Marshall, giornalista inglese di cinema e viaggi, a Roma dal 1984, che ancora rivendica di aver voluto mandare la figlia al liceo Tasso. «Io e mia moglie eravamo d'accordo. Per noi iscrivere Clara a una scuola inglese internazionale avrebbe significato ghettizzarla. Non aveva senso. E poi la scuola pubblica italiana con tutti i suoi difetti resta molto valida. A Londra, per esempio, se vuoi che i tuoi figli possano iscriversi in una buona università come Oxford o Cambridge devi per forza mandarli in un istituto privato. Invece Clara a Cambridge ci è arrivata dopo il Classico. E i suoi docenti universitari mi hanno testualmente detto che gli studenti dei licei italiani sono tra i più bravi, perché hanno una formazione ampia».
Concediamoci un po' di orgoglio scolastico, allora. Tanto più che il neo capo Dipartimento istruzione al ministero, Lucrezia Stellacci, ricorda di quando era direttore dell'Usr dell'Emilia Romagna e seguì a Parma l'attivazione della scuola per l'Europa. «Lì l'ambiente è molto raffinato. Sembrava scontato che i funzionari stranieri dell'Authority per la sicurezza alimentare ci avrebbero fatto studiare i loro figli. E invece no. Era più forte il bisogno di formazione educativa rispetto a una esigenza strettamente disciplinare». Stellacci fa un altro esempio, questa volta romano. «Al liceo scientifico Newton c'è una percentuale molto alta di studenti francesi, inglesi, austriaci, oltre a quelli di area non europea. L'ambiente è estremamente differenziato, l'offerta formativa ricca e in tanti vorrebbero iscriversi. Certo è merito del preside, Mario Rusconi, che è riuscito ad amalgamare le classi».
L'integrazione come priorità è il motivo che ha spinto Dorman Racines, importatore in Italia del BootCamp, il programma di allenamento dei Marines, a far frequentare a Luel Maria e Andres Leon, 10 e sette anni, una scuola pubblica. «Soltanto lì ci sono tante storie e strati culturali diversi. Questo è un arricchimento».
Sono passati vent'anni, ma Marcello D'Orta, il maestro che scrisse Io speriamo che me la cavo, non ha dimenticato di quando ad Anzano veniva chiamato per fare gli esami alle scuole private. «Ma quella era un'altra cosa. Loro avevano la palestra e noi no, ma quanto a preparazione, lasciavano un po' a desiderare». Ci tiene, invece, a sottolineare che «la coppia tedesca a New York ha fatto una buona scelta, perché quando mandi tuo figlio in un ambiente troppo elitario, è inevitabile il pericolo che ne esca un disadattato, viziato, incapace di confrontarsi con contesti reali».
Che poi le scuole straniere continuano a fare, e bene, il loro lavoro. A Gabriella Träger, per esempio, direttore amministrativo della Deutsche Schule Mailand, la scuola Germanica di Milano, fa sorridere la mensa con sette menu dell'omologa newyorchese. «Ecco, noi non siamo così. La nostra è una Begegnungsschule, che ha come obiettivo di favorire l'incontro tra le due lingue e culture. Metà del nostro migliaio di alunni è italiana, poco meno del 20% tedesca da parte di entrambi i genitori, il 30% misti italotedeschi, tedesco-italiani o di altra cittadinanza».
Bernard Charles Mullane, preside della Ambrit International School di Roma, rivendica il fatto che due terzi degli iscritti sono stranieri: «Dopo un mese di scuola pubblica italiana scappano e vengono da noi, il sistema è troppo diverso».
Sarà. Ma Eva Schenck e Gijs Pyckevet, architetti di Berlino e Eindhoven, hanno infine iscritto i bambini alla scuola pubblica della Garbatella. Racconta Eva: «Ci eravamo informati alla tedesca. Ma quando mi hanno chiesto quanti domestici avevamo in casa ogni dubbio è svanito. Voglio che i nostri figli crescano con tutti».