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ScuolaOggi: Non solo no

di Fabrizio Dacrema

06/10/2008
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ScuolaOggi

Come ormai di consueto chi si oppone alle controriforme scolastiche del centrodestra è considerato conservatore. Secondo un autorevole editorialista del Corriere della Sera, Angelo Panebianco, la riforma della scuola elementare e la conseguente abolizione del maestro unico sarebbero dettate esclusivamente da ragioni sindacali e i sindacati sarebbero tra i principali responsabili della rovina della scuola, in particolare la Cgil “un sindacato interessato solo alla difesa dello status quo”.

Chi conserva e chi innova

È sinceramente anche abbastanza noioso ricordare di nuovo il lungo percorso di innovazione che ha portato al superamento del maestro unico. Un percorso originato dalle forze professionali più avanzate e innovative della scuola elementare, partito negli anni settanta con l’esperienza del tempo pieno e passato attraverso l’’elaborazione dei programmi ‘85, la sperimentazione dei moduli, fino ad approdare all’approvazione della riforma del ’90. I sindacati, poi, non tutti erano per la riforma, c’erano i conservatori dello Snals contrari, perché legati al maestro unico, e i confederali, più aperti all’innovazione, favorevoli.

Noioso e inutile perché la ferrea convinzione di Panebianco non è supportata da alcuna argomentazione da controbattere. Anzi, una c’è: lui l’aveva già scritto il 22 novembre 1989 che l’unica ratio della riforma era “bloccare qualsiasi ipotesi di ridimensionamento del personale scolastico come conseguenza del calo demografico”. A quasi diciannove anni di distanza ci aspettavamo qualcosa in più, che so, un’indagine, qualche dato, delle ricerche tese a dimostrare il fallimento di una riforma fatta solo nell’interesse degli insegnanti e dei sindacalisti contro le esigenze degli alunni. Invece niente, solo la conferma di un pregiudizio ora diventato stanco stereotipo.

In assenza di argomenti che cerchino di smentire le agenzie di valutazione nazionali e internazionali, il gradimento delle famiglie e l’opinione degli insegnanti (82,5% contro il maestro unico anche secondo un recente sondaggio di Tecnica della Scuola), si dovrebbe almeno evitare di definire conservatori coloro che dicono no alla manovra Tremonti-Gelmini.

I conservatori, ovviamente, ci sono anche nella scuola, ma non sono quelli che vanno in piazza, sono silenti e confidano che, tra riforme e controriforme, non cambierà nulla, come è quasi sempre accaduto. E poi la Gelmini non spaventa affatto gli insegnanti conservatori: licenzia i precari e garantisce quelli di ruolo, rassicura chi era preoccupato di dover cambiare modo di insegnare a causa del nuovo obbligo a 16 anni perché rimanda nella formazione professionale “chi non è fatto per studiare”, non dispiace a chi non ha mai digerito la fatica di programmare e cooperare con gli altri docenti del team.

La stragrande maggioranza di quelli che dicono no alla manovra Tremonti-Gelmini vogliono, invece, cambiare la scuola per migliorarla, non conservarla così com’ è, perché sanno che ha molte insufficienze, ma per poterlo fare devono prima salvarla dall’onda distruttiva del governo.

No alla manovra Tremonti-Gelmini per cambiare la scuola

Chi dice no non riesce ad essere convinto dalla teoria minimalista della Gelmini secondo la quale per la scuola pubblica meno è meglio. In Italia spendiamo già poco per l’istruzione, il 4,7% del Pil contro il 5,8 della media Ocse, restiamo in coda anche se consideriamo gli investimenti totali a favore dell'istruzione: in media i Paesi Ocse investono il 13,2% della spesa pubblica per questo settore, mentre l'Italia è sotto il 10%. Spendere ancora meno, molto meno (8 miliardi in tre anni), significa rinunciare per sempre a superare il nostro pesante deficit formativo (meno diplomati e laureati e più dispersione) e allontanarci definitivamente dai paesi sviluppati, sia nella crescita economica che nello sviluppo civile.

Anche le imprese in difficoltà tagliano i rami secchi per poi reinvestire e rilanciare la produzione, la Gelmini, invece, taglia e basta. Né può essere considerato un reinvestimento il 30% dei tagli ormai diventato come i carri armati di Mussolini, ad ogni giro cambia la finalizzazione: dal finanziamento dell’operazione maestro unico (pagare le ore aggiuntive dei maestri per coprire le 24 ore obbligatorie o quelle aggiuntive per arrivare a 27/30 su richiesta delle famiglie) all’aumento del tempo pieno. Sicuramente non servirà per le carriere professionali degli insegnanti, come scritto nella legge, perché dovranno casomai compensare le perdita del potere di acquisto provocata dalla politiche del governo (risorse risibili per rinnovare i contratti, nessuna riduzione fiscale sulle buste paga, nemmeno per compensare il fiscal drag, tasso di inflazione programmata inferiore alla metà dell’inflazione reale).

Chi dice no è convinto che per cambiare la scuola ci vogliono risorse e riforme perché solo se si spende di più e meglio la scuola pubblica migliorerà. È una verità sconvolgente nella sua banalità, ma è confortata dall’esperienza e dai dati.

Risorse e riforme

Nella scuola elementare siamo ai primi posti nelle classifiche grazie alla riforma realizzata e alle risorse investite (una parte dei docenti altrimenti in soprannumero a causa del decremento demografico è stata utilizzata per potenziare e qualificare l’offerta educativa educativo). Guarda caso questo è l’unico settore dove non spendiamo meno rispetto agli altri paesi sviluppati: la spesa per alunno è di 6.853 dollari contro una media Ocse di 6.252. Grazie a questo investimento è aumentato il tempo scuola (da 24 ore settimanali a 30 per il 75% delle classi e a 40 per il 25%) e si è introdotta la pluralità docente, aspetti entrambi necessari per attuare i nuovi programmi che hanno messo al passo la nostra scuola elementare con i cambiamenti sociali e culturali. Inoltre si assicura l’insegnamento della lingua straniera, della religione cattolica, l’integrazione dei disabili e una rete scolastica che attraversa un territorio con 7.000 piccoli comuni, zone di montagna e piccole isole.

Il reinvestimento di risorse che si è realizzato nella scuola elementare è tutt’altro che anomalo visto che, secondo l’ultimo rapporto Ocse, “tra il 1995 e il 2005 la spesa per l’istruzione primaria e secondaria è cresciuta ad un ritmo più sostenuto del numero di studenti in tutti i paesi, e persino più del rapporto Pil pro-capite di oltre due terzi … negli ultimi dieci anni si è quindi assistito ad un aumento delle risorse disponibili per studente nella scuola primaria e secondaria”. A questo proposito è opportuno ricordare che tra 1995 e il 2005 gli investimenti nella scuola nei paesi Ocse sono aumentati del 41%, mentre in Italia l’incremento è rimasto contenuto al 12%.

Nella scuola secondaria, dove invece le riforme non si sono fatte, ci collochiamo agli ultimi posti della classifica Ocse-Pisa e abbiamo una dispersione scolastica molto superiore alla media, anche se non spendiamo molto meno (7.648 dollari per studente contro una media Ocse di 7.804).

Nell’università, dove la spesa per studente è quasi di un terzo inferiore alla media Ocse (8.026 dollari contro 11.512), i nostri indicatori sono negativi: solo il 19% dei 25-34enni italiani sono laureati, dato ben distante dal 33% della media Ocse, anche se il tasso di laurea dei nuovi studenti è passato dal 17% del 2000 al 39% del 2006. Un risultato importante che va largamente attribuito alla riforma del 2002. Il tasso di abbandono è però sempre molto alto: solo il 45% degli iscritti si laurea a fronte di una media Ocse del 69%. Se poi si guarda alla capacità di attrarre studenti stranieri l'Italia occupa l'area bassa della classifica. Se, infatti, gli Stati Uniti si confermano il Paese che più attrae con il 20% delle preferenze - seguiti da Gran Bretagna, 11,3%, Germania, 8,9%, Francia, 8,5% e Australia, 6,3% - l'Italia si deve accontentare dell'1,7%.

Le proposte per migliorare la scuola non mancano

Se la Gelmini si ricordasse che è Ministro della Pubblica Istruzione e non sottosegretario di Tremonti, accetterebbe questo dato di realtà: in Italia per l’istruzione bisogna spendere di più e meglio.

Questa è la premessa di ogni possibile confronto per un piano di legislatura che gradualmente investa risorse fresche per l’istruzione a partire dai settori più carenti e, al tempo stesso, razionalizzi la spesa. Una parte delle risorse necessarie per innovare la scuola si può, infatti, trovare anche al suo interno: cambiare significa anche allocare diversamente le attuali risorse, spendendo meno per aspetti obsoleti e improduttivi del nostro sistema scolastico (ad esempio: troppi indirizzi e orari eccessivi in settori della secondaria, scuole del primo ciclo a tempo prolungato con pochi alunni e/o senza rientri pomeridiani) per liberare risorse da investire per la qualità dell’offerta formativa e per valorizzare la professione docente. Non manca lo spirito pragmatico e riformista nella stragrande maggioranza delle persone che contestano la Gelmini, ma non sopporta di sentirsi dire “non ci possiamo permettere l’attuale spesa per la scuola” (G. Tremonti) da un governo che ha spazzato via tutte le misure che avevano decretato i successi di Visco contro l’evasione fiscale, tagliato l’ici ai ricchi e si prepara a finanziare le scuole private.

Non mancano nemmeno le proposte alternative. La Cgil, considerata da Panebianco la principale forza conservatrice, ha presentato le sue addirittura prima del voto. Sono contenute in un documento intitolato “Programma della Conoscenza” rintracciabile sui nostri siti.

Basta leggerlo per capire che propone di cambiare radicalmente il presente stato delle cose scolastiche, punta sull’autonomia e sulla valutazione, sulla qualità del lavoro docente e sulla sua valorizzazione e differenziazione, sull’effettiva attuazione del nuovo obbligo e sulla continuità sei-sedici, sul potenziamento dei nidi e dell’educazione degli adulti, sul miglioramento del rapporto tra scuola e mondo del lavoro.

Del resto tutti i governi che hanno operato per qualificare la scuola pubblica hanno trovato nella Cgil un interlocutore costruttivo anche se ovviamente non acritico. E questo vale per la maggioranza delle forze che oggi dicono no alla Gelmini.

Infine, coloro che vedono conservatori in tutti quelli che oggi si battono per salvare la scuola pubblica, si fermino un attimo e si domandino: i modernizzatori sarebbero quelli che vogliono tornare ad una scuola precedente, non solo al 1968, ma al 1962 (riforma della scuola media) e ispirata a dio, patria e famiglia?


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