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ScuolaOggi-LA SCUOLA IN COMUNE nella riflessione pedagogica

LA SCUOLA IN COMUNE nella riflessione pedagogica di Raffaele Iosa Dal primo settembre 2.000 ogni istituzione scolastica del nostro paese è o meglio sarebbe autonoma. Autonomia didattica, orga...

03/11/2005
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ScuolaOggi

LA SCUOLA IN COMUNE nella riflessione pedagogica
di Raffaele Iosa

Dal primo settembre 2.000 ogni istituzione scolastica del nostro paese è o meglio sarebbe autonoma. Autonomia didattica, organizzativa, finanziaria, reti tra scuole e con il territorio, flessibilità del curricolo. Dal 1 gennaio 2002 gli enti locali, per merito del D.lvo 112/98, diventano nuovi protagonisti del destino della scuola nel loro territorio, da erogatori di servizi materiali a programmatori, coordinatori, promotori. Eppure in questo presente gli anni appena trascorsi hanno segnato una forte battuta di arresto.

La ragione non sta solo nel fatto che gran parte delle politiche ministeriali hanno ripristinato modelli verticali di potere, che i finanziamenti si sono ridotti o sempre più spostati verso la gestione delle solite burocrazie, che i primi tentativi di organici funzionali sono stati soppressi. Nella sostanza, un'autonomia in gran parte ridotta a poche ammuine interne, sembianze fatue della potenza innovatrice del Regolamento autonomia.

C'è anche una ragione più strutturale, che ha toccato l'altra potenza innovatrice del decentramento e federalismo dati dal nuovo Titolo V della Costituzione, e cioè il semi fallimento del processo di sussidiarietà territoriale che ridisegna gli enti locali come protagonisti e le scuole autonome nuovi enti locali a mission nazionale. Ciò è certamente da attribuirsi alla difficile transizione, alla crisi economica, al ritorno di nostalgie centraliste, ma anche alla timidezze locali a riprendersi l'educazione come terreno condiviso di priorità.

La scuola non ha sempre avuto negli enti locali dei partner di aiuto per far crescere la loro autonomia, questi spesso hanno preferito avere come interlocutori ancora i CSA, la Direzione scolastica regionale, il Ministero. Gran parte dei poteri dati dal D.lvo 112 e dal Titolo V sono diventati estenuanti contrattazioni tra ANCI, UPI e regioni con il Ministero. L'ANCI, in particolare, è diventata una vera controparte istituzionale, per esempio nel salvataggio in corner del tempo pieno o per una critica di merito alle rigidità anti-autonomia di oggetti quali il tutor o l'orario. Confusa è diventata la questione dei cosiddetti "livelli essenziali delle prestazioni" che ha creato continui conflitti tra il governo nazionale e quelli locali su chi tocca che cosa, se l'invadenza nei particolari che spesso il governo si arroga, o grandi cornici-obiettivo nel rispetto della sussidiarietà.

I ministeriali continuano a fare i ministeriali, gli enti locali i comuni, le scuole periferiche del MIUR. Emblematico è il fatto che la sentenza della Corte Costituzionale della primavera 2004, che assegnava alle regioni la competenza sulla gestione degli organici è stata per ora disattesa dalle regioni stesse, qualcuna in attesa che cambi il governo prima di prendersi questo non semplice fardello, qualcun'altra convinta che convenga far fare ad altri il lavoro sporco della gestione risorse.

Altrettanto emblematica è la crisi dei dirigenti scolastici, divenuti ormai sergenti, schiacciati come don abbondi tra famiglie, insegnanti, comuni senza soldi e la filiera ministeriale che chiedeva obbedienza. Si è perfino arrivati a sostenere che i dirigenti scolastici sono come parroci, non rappresentanti della comunità educante ma cinghia di trasmissione delle burocrazia. In assenza della riforma degli organi collegiali (non un caso) la dirigenza scolastica è apparsa opaca, autoreferenziale, inutile e quasi dannosa se così impostata.

Emblematico, ancora, è che sui curricoli (o piani di studio che dir si voglia) si sia abbandonato il cosiddetto "curricolo locale" affidato alle scuole, preferendo l'individualistica "opzione" delle famiglie e la bizzarra quota regionale che ci fa correre il rischio della pedagogia della mozzarella, della polenta taragna, dei risi e bisi, della piadina. Un modello rigido di organizzazione stabilito dall'alto, una neo Pedagogia di Stato, poca fiducia alle scuole come comunità miste di insegnanti-genitori-territorio capaci di autogoverno.

Emblematico, infine, è il fatto che sono nate pochissime strutture territoriali miste tra scuole ed enti locali come sedi di governance. Nella mia regione, Emilia Romagna, si è provato con le cosiddetta commissioni paritetiche provinciali, fantasmi dei vecchi consigli scolastici provinciali. Nessun passaggio di poteri reale. Solo in Toscana si è provata un'esperienza di governance reale dal basso, esperimento-pilota fallito per il niet del nuovo dirigente regionale. In gran parte delle regioni, comunque, nulla è cambiato davvero del ruolo degli enti locali e delle scuole autonome nei processi di decisione. Le reti tra scuole sono in genere piccole tribù di auto-aiuto o lobby spartitorie, pochissima innovazione si è realizzata nei rapporti con la società civile.

In alcuni settori sento (anche a sinistra) nostalgia del vecchio governismo centrale. La devolution accentua questa nostalgia, per gli eccessi puramente localistici, che per la verità in fatto di scuola sembrano da un lato riaffidare di più allo Stato vecchi poteri, dall'altro sembrano affidare alle regioni poteri interessati. Chi ne paga, in termini di sviluppo, è la scuola autonoma, che a questo punto quasi preferisce riferirsi ad un ministro o a un sottosegretario piuttosto che ad un assessore regionale dilettante. Insomma, non c'è sviluppo reale né della sussidiarietà né del decentramento. Rischia di tramontare prima del previsto un sogno pedagogico.

Sento dire da più parti del Gadulivo che, dopo le elezioni, verrà ri-dato grande impulso alle autonomie scolastiche, come nuovi centri di sviluppo e cambiamento. Lo spero proprio. Anche per il lavoro che ho svolto per la nascita dell'autonomia, mi permetto di suggerire alcuni approfondimenti sulla questione autonomia scolastica, per non farne solo tema di qualche aggiustamento, ma una riflessione più profonda sul rapporto tra cittadini e istituzioni, tra servizi e persone, la comunità e la partecipazione dal basso come nuovo Paese da ricostruire, contro tutti i miti decisori dei demagoghi. Riprendiamo a pensare ai fondamentali.

1. Le ragioni antiche dell'autonomia scolastica

Una società delle responsabilità amichevoli diffuse
La discussione sul federalismo, e sul decentramento è nel nostro paese afflitta da un conflitto insanabile e da troppe parole, complicata da chi vuole persino la secessione a chi ha nostalgia del vecchio centralismo. Io sono invece federalista, o meglio amante della sussidiarietà, perché credo sia necessario responsabilizzare dal basso le sedi della cosa pubblica come nuovo autogoverno e nuove soggettività dei cittadini.

Amo la cosa pubblica come cosa di tutti (non dello Stato lontano o della burocrazia), senza pregiudizi verso il privato sociale partecipe al welfare, insostituibile garante dell'equità dei servizi purchè sappia garantire vicinanza e partecipazione ai bisogni/diritti reali di ognuno. Lo scopo è di riconciliare i cittadini con i servizi pubblici offrendo una maggiore qualità delle prestazioni con l'unico modo che a me pare possibile: portare le decisioni nei luoghi dove si erogano i servizi, rendere i cittadini partecipi, non clienti e neppure servi. Così si può superare la crisi che rende spesso la cosa pubblica inefficiente, ostile, pesante. L'esito atteso è una maggiore capacità di individualizzazione, flessibilità, coerenza dei servizi in relazione ai diritti di cittadinanza. Un buon pezzo di democrazia sostanziale, dunque! Oltre la quale altrimenti c'è il darwinismo di chi si può pagarsi i servizi e la compassione per i poveri.

Questa idea riguarda la scuola, ma anche la sanità, i servizi sociali. Non basta quindi solo il decentramento (anche un consiglio di quartiere può essere clientelare), ma una diversa cultura del rapporto tra cosa pubblica e cittadini. Applicare la sussidiarietà che alimenta la partecipazione: risposte diverse alle diverse esigenze, non separare ma unire, opporsi alle disuguaglianze, escludere l'assistenzialismo e il paternalismo.

La sussidiarietà rinvia ad un modello di responsabilità che chiamo dei servizi pubblici amichevoli. Questo approccio considera i servizi alla persona strutturati in un ambiente di relazioni significanti. L'approccio amichevole opera per modelli di organizzazione tali che sia possibile a tutti vivere i loro personali progetti come attori sociali pieni, non come utenti o come clienti. La relazione tra chi offre una prestazione e chi la riceve deve essere dominata dall'intelligenza, cioè la capacità di comprendere e di apprendere, consapevoli delle molteplici opzioni, capaci di rivedere, dunque a essere costruttivi e creativi.

Sostenere che siamo tutti attori comporta un'inversione radicale: da un rapporto freddo e autoritario ente/utente a quello della reciprocità, che riconosce all'altro titolo a decidere del sè con noi.

La scuola autonoma amichevole
L'autonomia della scuola, a cui ho lavorato dal '96 al 2000, aveva questo scenario civile di riferimento: non è solo un decentramento di poteri, né un fatto organizzativo: serve a cambiare i modelli di insegnamento rompendo la rigidità e le abitudini burocratiche, per realizzare un sistema formativo flessibile e responsabile centrato sugli individui cittadini che apprendono. Quindi un nuovo welfare dei diritti.

Questo approccio apre molte finestre, sia in ordine alla reciprocità tra alunni, genitori, insegnanti, sia all'inospitalità di tantissime scuole brutte, sia fisicamente che nell'organizzazione delle didattiche. Una dimensione amichevole riconosce che se l'organizzazione non è reciproca, non fa male solo a chi riceve il servizio ma anche a chi dà; un'organizzazione amichevole in cui la reciprocità non diventa una concessione ma il riconoscere l'altro come attore, si sta meglio tutti. Ma l'obiettivo amichevole principale non è solamente relazionale: serve realizzare meglio gli obiettivi democratici strutturali del sistema scuola: garantire a tutti il massimo di opportunità di successo nella vita.

La nostra scuola risente ancora della zavorra culturale della tradizione elitaria di un'istruzione fondata sulla trasmissione e su una didattica autoritaria, che considera il sapere "come ascensione e iniziazione". La scuola italiana non è mai stata di tutti, ma una scuola per selezionare le élite. Anche quando la scuola, negli anni 60, è diventata di massa, essa non è mai riuscita a trasformarsi davvero in scuola per tutti e per ognuno, ma ha continuato a perpetuare un educativo elitario ad una massa sterminata di giovani. L'autonomia può essere il cuneo che rompe il modello elitario, con riforme strutturali dei curricoli e l'apertura al territorio.

La nostra tradizione scolastica ha disprezzato la didattica, e la relazione concreta sui processi di conoscenza insegnante-alunno ridotta a tecnica. Ha dominato il modello tayloristico della rigidità dei programmi, delle cattedre, con insegnamenti lineari uguali per tutti (e quindi ingiusti per le differenze tra gli alunni).

Con l'autonomia, invece, è la didattica e la sua flessibilità al centro del processo strutturale di cambiamento della scuola, ed è l'apprendimento l'asse di riferimento: significa porsi dal punto di vista dell'Altro per estrarre, da ogni altro, tutte le potenzialità umane, cognitive, emozionali, di progetto di vita. E', in sostanza, il transito da una scuola che seleziona le classi dirigenti ad una scuola delle opportunità per tutti. L'autonomia ha dunque un'anima etica e civile in ordine all'idea di persona: il successo autorealizzativo per tutti e l'innalzamento del livello culturale per i cittadini del nostro paese.

2. la scuola in comune

Ho pensato da sempre che la scuola autonoma debba essere considerata un nuovo ente locale a mission nazionale. La sua specificità sta nella sussidiarietà e nella territorialità. Per questo mi sono appassionato subito a dare gambe orizzontali alle scuole autonome, rompendo la loro dipendenza burocratica dal Ministero dell'Istruzione, ma considerandole invece soggettività interattive con la più vasta comunità locale. L'autonomia della scuola è per me la ricostruzione di una comunità orizzontale formata dai bambini e studenti, dai genitori, dagli insegnanti, dai cittadini, dagli enti locali, come sede di una più produttiva dimensione della vita per tutti. A fronte della crisi del partecipativismo degli anni 70, un nuovo modello di partecipazione asimmetrica e solidale, che faccia del sistema formativo integrato scuola-territorio-scuola la trama e l'ordito di nuovi luoghi della vita per tutti.

Oggi noi viviamo spesso in non-luoghi, le sedi di comunità sono in crisi, eppure tutti ne sentono una grande necessità. La scuola autonoma come comunità educativa locale è la vera sfida. Ne ho già parlato trattando il declino della società. Decaduta la simmetria perfetta tra scuola, quartiere, generazioni, lavoro, lo scompaginamento delle sedi di comunità ci fa ripensare in modo diverso alle sedi materiali, agli stili, ai sensi del fare oggi comunità. Serve costruire nuovi luoghi, fisici e immateriali. Altrimenti la solitudine dei nonluoghi aumenta la conflittualità, l'individualismo e la complessità dei rapporti: non si può rispondere con tanti insegnanti di sostegno per ogni problema individuale, e neppure con un magico Prozac. Fare comunità non è una terapia, è cercare di cambiare in meglio la vita di tutti.

Pensiamo prima di tutto a chi va a scuola ad imparare, e alla necessità di riprendere il pensiero di Dewey della scuola come luogo sociale. La scuola autonoma può costruire una sua polis (una neo-piazza), abituando i bambini e i ragazzi alle relazioni di senso e gli insegnanti ad una vera cooperazione professionale tra loro. Credo molto in quelle esperienze in cui la scuola diventa una cooperativa di soggetti, una micro-società con la sue regole, con una sua piazza in cui anche i piccoli sono soggetti di decisione e di comunicazione. Penso male, invece, delle troppe scuole imitative dei non-luoghi, che si riempiono di lustrini da supermercato. Forse questa neopiazza è meglio che sia un'oasi, dove tempi e modi non siano quelli della surmodernità.

In questa comunità i ruoli sono più fluidi che nel rigido modello scolastico, vale molto la cooperazione educativa tra pari, l'alunno che insegna all'amico. Anche il silenzio, la pazienza, la lentezza fanno comunità. Altrettanto la comunità sociale può farsi "apprendimento" se tutte le opportunità culturali e civili vengono valorizzate non come kermesse episodiche, ma entro una trama che aiuta ad "imparare insieme" (vecchi giovani, alti e bassi, magri e grassi) a stare insieme con la gioia di un nuovo senso di comunità.

Comunità che non è separazione né provincialismo, ma melting pot che si fa in un terreno comune di vita (la comune città degli uomini e delle donne). Sono sempre di più i luoghi non scolastici dove si impara: pullulano di gente le palestre, i corsi di macrobiotica, i cori musicali. Si impara dappertutto. Anche qui può nascere un formidabile rapporto tra scuola ed ente locale: non due mondi estranei, ma accomunati dal fatto che la conoscenza li pervade entrambi: è la cultura il collante per una nuova comune sinergia.

La cultura, in tutte le sue espressioni, può essere uno straordinario collante di comunità: una cultura che non si fa ognuno privatamente con i propri strumenti, ma che ha sedi di incontro, di convivenza, di confronto. Quanto detto vale oltremodo in luoghi nei quali le differenze tra persone aumentano a dismisura rispetto al passato. I nostri concittadini stranieri sono un esempio di un'occasione nella quale la cultura si può incontrare in piazze comuni oppure isolare in ghetti separati a sicura esplosione razziale.

La risposta comunitaria della scuola supera anche l'idea dello studente come cliente, lo eleva ad una relazione amichevole più calda. Si tratta di sviluppare, con l'autonomia, anche forme di rappresentanza, di partecipazione, di attività che rompano gli steccati formali, che allarghino il pedagogico al territorio e facciano entrare il territorio nel pedagogico. Basta con i consigli di istituto pseudoparlamentari e i collegi dei docenti notarili: diamo senso alle diverse responsabilità con forme partecipative originali ed essenziali.

Alla solitudine non si risponde con una qualsiasi terapia, ma con robuste opportunità di incontro, con la consapevolezza della nuova mobilità del territorio, anche con la ricerca di consolidare le radici, di trovarne di nuove, di cercare nuovi innesti. Al rischio dei nonluoghi si risponde con un rapporto comunicante.

Per questo amo le scuole intriganti, quelle che sono sedi di azione verso i temi della città e della convivenza quotidiana. Scuole che diventano soggetti di animazione. Allo stesso tempo amo quelle città dove si fa politica del territorio pensando ai tempi e agli spazi di vita delle persone di ogni età, anche dei bambini.

Qui viene il punto strategico di un nuovo sistema formativo integrato, che a differenza di quello degli anni sessanta (con il pensiero profetico di Bruno Ciari) ripensi alle nuove e più complesse relazioni di comunità con una sguardo nuovo e con maggiore flessibilità.

Gli enti locali vivono tutti il peso della crisi di comunità. Gestire oggi un comune o una provincia è particolarmente complesso e arduo, su questo punto. Ricostruire i tessuti di relazioni significanti è, ad esempio, difficile sull'incontro tra generazioni, sul rapporto tra tempi di vita e di lavoro, sulle nuove povertà e sulle nuove solitudini. L'arrivo di nuovi cittadini stranieri rende le nostre comunità colorate ma non per questo facilmente nuove comunità più aperte, anzi!

Ebbene: scuola ed enti locali nell'integrare insieme ideali, progetti, azioni, possono allargare le occasioni di comunità, per stare tutti meglio insieme nel destino che l'appartenere al medesimo territorio ci ha dato.

Va di moda, giustamente, oggi proporre alle scuole di diventare rete, di costruire consorzi. Oggi è possibile farlo con gli enti locali fino a costituire formalmente un sistema pubblico integrato. E' una buona cosa uscire dal feudalesimo degli istituti scolastici chiusi e dall'autoreferenzialità dei diversi enti tra loro. Ma questa idea di rete va vista con una logica di scambi positivi, ha bisogno di un valore forte, democratico e civile, altrimenti rischia di essere una somma di convenienze. Ma si deve fare rete anche con i cittadini, con il volontariato. Una scuola del territorio e non sul territorio diventa una bella risorsa per tutti.

In questa idea di rete, la scuola può essere il luogo della memoria, della produzione culturale, dell'animazione di occasioni di incontro. E' straordinaria la vitalità di molte scuole a produrre azioni culturali, prodotti che non hanno solamente la bellezza dello stare insieme, ma anche dell'imparare insieme.

Bisogna però criticare con asprezza coloro che invece pensano che le scuole autonome possano essere recinti ideologici dove chiudere in una i ragazzi giallini, in un'altra quello celestini, in un'altra ancora quelli con dialetto bergamasco. Le scuole fondamentaliste sono l'anticamera dell'inquisizione, del mitra, dell'isolamento. Perché oggi comunità è incontro tra diversi, non chiusura tra pseudo-uguali. La comunità, infatti, non è più solamente quella dei vicini di casa.

L'autonomia trasforma la filiera verticale di comando ministero/provveditorati/scuole con deleghe esecutive a sistema di responsabilità plurali centrate sugli stessi erogatori dei servizi: l'istituzione scolastica autonoma. Il processo innescato può sviluppare una vitalità materiale molecolare che matura un federalismo nei fatti, portando in basso e nel modo più diffuso possibile le responsabilità di erogazione dei servizi ai cittadini. Ma l'autonomia di ogni singola scuola può anche essere un limite se diventa autoreferenziale e chiusa.

Per questo, in primis, le scuole autonome devono fare rete. Per la loro configurazione, assimilabile ad un sistema di imprese medio-piccole, si adattano facilmente alla variabilità della domanda sociale, ma sono deboli (se autoreferenziali) nello sviluppo del livello qualitativo dell'offerta. Da sole sono troppo piccole, ma non possono certo avere qualcuno che decida al posto loro: sarebbe ripristinare la filiera esecutiva verticale. Necessita, perciò un sistema consorziale di circolazione di idee e di ottimizzazione delle risorse, che non può essere imposto dall'esterno: è per sua natura volontario e i servizi dati obbligatoriamente a domanda.

La consorzialità orizzontale, se ben promossa e finanziata dal livello intermedio di governo scolastico regionale, aiuta a realizzare un sistema perequativo che stimola "patti territoriali" e "azioni positive" senza interventi assistenziali. La perequazione definisce il livello di "non indifferenza" del sistema alle situazioni di difficoltà. Paradossalmente la filiera esecutiva verticale precedente, nel trattare alla pari tutte le istituzioni scolastiche, attende solo il rispetto delle procedure ma non alimenta la qualificazione del servizio; ma altrettanto paradossalmente una rete delle autonomie che interpreti la sussidiarietà come un totale "fai da te" senza un sistema di supporto e mutualità cadrebbe nell'indifferenza degli esiti complessivi del sistema.

Ecco già una risposta alla querelle sul ruolo dei CSA e delle Direzioni regionali. E' necessario un Ministero leggero, di indirizzo e di controllo qualitativo, di perequazione, di vero supporto e mutualità; tutto il resto è sovrastruttura che non fa crescere la sussidiarietà e perpetua una scuola lineare, obbediente, poco creativa.

E' noto il mio pensiero: la sinistra e la destra finora sono state troppo deboli e condizionate dalle burocrazie. Questo è vero anche per la questione dei curricoli e delle quote delle scuole. Un curricolo non può essere sbranato tra livello nazionale, regionale e individualistico di ogni famiglia. Saremmo da un lato sullo pseudo-etnico e dall'altro al supermercato. Credo sia ancora saggia la linea del Regolamento Autonomia: una quota nazionale equivalente per tutti, flessibilità interna alla quota nazionale e curricolo locale come incontro dialettico e fertile tra progettazione e competenza dei docenti, attese dei genitori, attese del territorio. Incontro, non somma né sottrazione, nel quale i genitori sanno che ogni loro figlio è un soggetto in una comunità non un cliente anonimo in un negozio. Ricordo che l'art. 3 del Regolamento autonomia precisa bene il ruolo del territorio e degli enti locali nella formazione del Pof. Uno mio sogno e basta?

Dal D.lvo 112/98, il ruolo degli enti locali verso la formazione appare sempre più come un soggetto politico rilevante circa i destini della scuola. Non si tratta più di soggetti erogatori di soli servizi materiali, ma di programmatori, promuoventi, titolari di competenze primarie, soggetti che sviluppano cultura. Non ci si spiegherebbe, dunque, se la riforma del Ministero non incentivasse l'incontro integrato tra diverse autonomie locali per un obiettivo comune: migliorare l'eccellenza formativa e culturale dei cittadini.

Tutto questo pone l'esigenza di prevedere una configurazione dei servizi per la formazione con connotati funzionali, organizzativi, istituzionali all'insegna della complessità e del governo di servizi con una logica di sistema integrato tra scuola ed enti locali, raccordando i diversi soggetti altrimenti destinati all'autoreferenzialità e alla gestione proprietaria delle loro funzioni. Se guardiamo i due enti in modo separato non ci accorgiamo di nulla, se li guardiamo con occhio convergente emergono non poche sorprese.

Il cambiamento strutturale delle sedi di decisione e autogoverno deve essere accompagnato anche dalle modalità concrete con cui si amministrano le scuole e gli enti locali. L'integrazione tra sistemi giuridicamente e amministrativamente diversi è un interessante tavolo di messa alla prova di una nuova competenza integrata (tra amministrativo/tecnico e tra diverse soggettività) che va valorizzata come la competenza del futuro. strategica, dinamica, creativa, motivata sul compito.
Autonomia, scuole in comune e patti territoriali danno una risposta ben diversa da quella attuale sul ruolo dei CSA e delle Direzioni regionali. E' necessario un Ministero leggero, di indirizzo e di controllo qualitativo, di perequazione, di vero supporto e mutualità; tutto il resto è sovrastruttura che non fa crescere la sussidiarietà e perpetua una scuola lineare, obbediente, poco creativa. Ma è altrettanto necessaria una Regione leggera, altrimenti ripristineremmo in piccolo tanti ministeri locali. Il cuore della questione sta nella sussidiarietà.

Per questo mi piace pensare ad un federalismo gentile, che crede nelle persone e nei soggetti capaci nei luoghi dove vivono e lavorano di realizzare uno Stato democratico, civile, equo. Senza nuovi sovrani.


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