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ScuolaOggi: La caccia alla volpe e la politica scolastica

Franco De Anna

02/10/2008
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ScuolaOggi

Come si sa, nella caccia alla volpe quest’ultima rappresenta un optional.
La cosa veramente importante non è catturare l’animale, ma che dame e cavalieri galoppino nella brughiera al suono dei corni da caccia e dei latrati dei cani.
Del resto è una variante, sul piano dell’intrattenimento festoso, di una vecchia tattica “militare”: impegnare l’avversario con una falsa manovra in modo che lasci scoperto il vero obiettivo.
La cacofonia mediatica che circonda questo scorcio di iniziale politica scolastica assomiglia molto ad una caccia alla volpe.
Si libera la volpe nella brughiera e si invitano al galoppo gli interlocutori: che stiano occupati ad inseguirla, il bersaglio è un altro.
Io apprezzo naturalmente molto i colleghi che, per esempio, riportano l’attenzione sul valore storico e pedagogico delle esperienze del tempo pieno e dei moduli nella scuola elementare, così come le sottolineature sulle problematiche dei comportamenti giovanili e delle “regole” che devono caratterizzare la vita scolastica. Apprendo sempre qualche cosa di nuovo dalle loro riflessioni.
Ma credo, appunto, che si rischi di dedicare un approfondito e significativo esercizio di riflessione attorno ad “oggetti” che in definitiva rappresentano “diversivi”.
Una argomentazione “pedagogica” (!?) come quella che sostiene la necessità del “maestro unico” merita tanta attenzione? E’ una posizione legittima quanto altre.
Esattamente come le preoccupazioni relative ai comportamenti giovanili. Si potrebbe sempre rispondere con una domanda: Pinocchio, le Avventure di Tom Sayer e Huckelberry Finn, I ragazzi della Via Paal, che per molti di noi hanno costituito letture “formative” giovanili, rappresentano apologie di “bullismo”?
Avete mai visto un “adolescente razionale”? O non dobbiamo considerare l’esplorazione del confine tra la regola e la trasgressione come “fisiologica” per un adolescente? Con il suo corollario che il rapporto tra trasgressione e punizione rappresenta una “sfida” nel percorso verso l’autonomia personale che è il coronamento della “formazione”. Se così non si interpreta la questione nella scuola, il voto in condotta va dato agli “educatori”….
Il grembiule risponde davvero ad una istanza di “sobrietà egualitaria”? Basta una visita a qualunque grande magazzino (non dico alla boutique..) per verificare la varietà di prezzi, griffe, personalizzazioni dei grembiulini offerti alla spesa delle famiglie.
Il problema è che su temi come questi si opera “solleticando” il senso comune più conservativo ed i timori più superficiali. Sulla scuola esattamente come su altro (dall’immigrazione, alla microcriminalità..).
E, problema nel problema, che sulla scuola assistiamo all’ennesimo “tradimento degli intellettuali”: chi avrebbe come funzione proprio quella di contribuire a creare un “senso comune” critico ed adeguato alla realtà, la dismette o con il silenzio o, al peggio, facendo da eco alle reazioni più retrò.
Dai maitre a pensee che scrivono sui giornali, rimpiangendo la loro maestra (ah… bei tempi!) ai giornalisti “da corsa” che non controllano neppure le informazioni prima di distribuirle “all’opinione pubblica”, all’illustre economista che in TV parla di “tre docenti su una classe” e non si accorge (?) di proporre una quantità che è doppia di quella reale (il doppio: uno scarto non da poco per un predicatore della dura necessità dei numeri…), è tutto un florilegio di esempi del problema “caccia alla volpe”.
In piena epoca della Restaurazione, c’era un modo di dire molto popolare per indicare i “guai” della stagione napoleonica “è tutta colpa di Voltaire..”. In modo non dissimile oggi “è colpa del ‘68”. Il problema è che c’è chi pensosamente annuisce, e chi altrettanto pensosamente smentisce. Entrambi prendendosi sul serio.
Ma torniamo al ragionamento sulla caccia alla volpe.
E’ del tutto evidente che il nocciolo duro delle questioni di politica scolastica sia oggi costituito dalla spesa (questioni “pedagogiche”, programmi, ordinamenti, stanno sullo sfondo e, ahinoi, forniscono le volpi necessarie per il galoppo degli interlocutori…).
La spesa per l’istruzione, la sua quantità, la sua composizione, e la ripartizione tra i diversi soggetti che concorrono al suo ammontare (Stato, Enti locali, le famiglie), rappresenta il vero terreno di confronto politico.
D’altra parte se la spesa sociale dedicata ai settori “portanti” del welfare (Sanità, scuola, previdenza) rappresenta circa il 30% del PIL, con un prelievo fiscale che si colloca attorno al 40% del reddito, è del tutto evidente che ciò costituisca una “agenda concorrenziale” per chiunque voglia governare la spesa e non solo la spesa.
Composizione della stessa, rapporto tra la spesa sociale e quella delle famiglie, priorità assegnate all’operatore pubblico, ripartizione di oneri e di responsabilità tra i diversi protagonisti del “pubblico” (si pensi al federalismo prospettato…) diventano elementi discriminanti delle diverse ipotesi politiche che si confrontano e delle “fisionomie” che si prospettano per il futuro del Paese e di questa sua istituzione fondamentale che è il sistema di istruzione..
Non che le questioni “ideali” non abbiano significato, anzi.
Qualsiasi approccio “economicista” alla politica finisce per mortificare la politica stessa e l’efficacia economica delle scelte politiche.
Si pensi, sempre in tema di politica di spesa, al ruolo fondamentale, sia politico che economico, che hanno questioni come il rapporto tra comportamenti individuali (la spesa delle famiglie e la sua composizione) e i comportamenti collettivi (la spesa pubblica), oppure si pensi al ruolo fondamentale che assume la questione del rapporto tra le attese individuali e gli esiti collettivi in tema di fiscalità.
La politica, appunto, ha la funzione fondamentale “pedagogica” di mediare tra le due dimensioni e di disegnare il processo che fa di un individuo un cittadino.
La riduzione economicista induce, prima o poi, al fallimento sia politico che economico. “Prima o poi”: il vero guaio è il tempo che intercorre tra il “prima” e il “poi” e i guasti che si producono nel frattempo.
Ciò posto, il “nocciolo duro” soprattutto in questa fase storica, è quello della spesa, anche per ciò che riguarda l’istruzione: così è stato per la Sanità un decennio fa e più recentemente per la Previdenza. Oggi tocca alla scuola.
Il riflesso “tecnico” immediato sottostante a tali nodi politico-economici è quello delle “prestazioni” impegnative per l’Amministrazione dello Stato (la politica di spesa pubblica).
Il riflesso politico, che non può non essere messo in conto da parte di chi operi per il contenimento della quota di spesa statale da destinare all’istruzione (come per la Sanità, la previdenza), è la preoccupazione che a fronte di una riduzione delle prestazioni pubbliche della scuola, si attivi una risposta sociale avversa ampia e ostinata.
La sfida era già contenuta nel governo del Ministero all’epoca del Ministro Moratti e nella Legge 53/03 che porta il suo nome (e che, fino a prova contraria, è ordinamento).
Il richiamo esplicito ( e costituzionalmente corretto, vedi Titolo V Cost.) riportato da quella Legge ai livelli essenziali di prestazione da definire normativamente ed il tentativo (riduttivo e inadeguato) di esprimerli in termini di “tempi” e “durate” del servizio scolastico (le “prestazioni” non si riducono evidentemente ai tempi e neppure al numero di alunni per classe o di insegnanti disponibili) è già evidente in quella legislazione.
Come sappiamo proprio la reazione suscitata da alcuni aspetti di quel provvedimento ne determinò non tanto il fallimento (è a tutt’oggi il riferimento dell’ordinamento scolastico vigente), quanto una applicazione “spuntata” rispetto alle intenzioni dichiarate.
Anche allora le reazioni negative del mondo della scuola si indirizzarono verso aspetti importanti ( il tutor, la personalizzazione dei percorsi, il portfolio, ecc…) ma evitando di misurarsi con il “nocciolo duro” sottostante. (quello di identificare con precisione le “prestazioni” impegnative per lo Stato)
Si confrontarono e scontrarono argomenti e affermazioni pedagogiche “come se” fossero quelle le discriminanti “politiche” reali per comprendere quale futuro si prospettasse alla scuola nelle diverse ipotesi di futuro del Paese.
Anche questa è una rappresentazione già vista: si pensi che negli anni ’70, con argomentazioni pedagogiche apparentemente discriminanti in merito alla riforma dell’istruzione superiore, la “sinistra” si qualificava oltre che per il biennio unitario, con il rapporto successivo con la formazione professionale, la composizione curricolare con insegnamenti fondamentali, complementari e opzionali (non diceva “personalizzazione” ma era l’equivalente), l’anticipo dell’ingresso scolare a 5 anni; dal mondo “conservatore” veniva una opposizione a quest’ultimo aspetto come potenziale “sfamiliarizzazione” dei bambini… e l’elenco potrebbe continuare.
Per molte di queste questioni, oggi, a trent’anni di distanza, le medesime argomentazioni pedagogiche a volte hanno cambiato radicalmente schieramento (elasticità della pedagogia, o dei pedagogisti?).
Il “fatto” storico e che per una intera fase storica, sulla base di tali “pretese” contrapposizioni, un’intera classe politica (sia chi governava sia chi si opponeva, certo con responsabilità quantitativamente diverse, ma qualitativamente analoghe) si è assunta la responsabilità di lasciare l’istruzione superiore del nostro Paese priva di qualunque intervento riformatore, o anche semplicemente di un adeguamento sensato alla realtà.
Altro che “sorprese” e interpretazioni capziose ed allarmate sui “nuovi” dati di OCSE-PISA!!!
Una lezione storica che dovrebbe insegnare molto sia a chi governa che a chi si oppone, circa la natura strutturale dei problemi che la politica deve affrontare. Che si lasci alla “scienza pedagogica” ed alla autonomia scolastica (unica vera potenziale novità dell’ultimo decennio..) il compito di confrontare e connettere “le argomentazioni”, le scelte pedagogiche e l’organizzazione didattica conseguente.
La politica strutturi i contenitori adeguati (prima di tutto le risorse) per realizzare gli obiettivi generali, sui quali, per altro, come per fortuna su altre questioni, il vincolo europeo indica già la strada (vedi obiettivi di Lisbona).
Certo la politica ha bisogno di “rappresentazioni” per mediare tra l’individuale e il collettivo.
Come racconta Tucidite “l’assemblea, uditi gli oratori, decide…” e questa è la democrazia.
Ma se l’assemblea è sostituita dai singoli davanti al televisore, e se l’oratore libera le volpi nella brughiera, la “democrazia” diventa altra cosa. La maggioranza diventa solo lo strumento utile a condannare Socrate. (Del resto si veda la polemica, di stampo allora conservatore, di Platone sulla “teatrocrazia” ateniese…).
Naturalmente c’è differenza tra chi “libera le volpi” e chi si mette a rincorrerle. Ma in entrambi i casi si fa cattiva politica: da un lato per far dimenticare il “nocciolo duro” del problema e facendo galoppare i cavalieri appresso a grembiuli, voti di condotta, troppi insegnanti ecc….
Dall’altro assumendo questi come i bersagli sui quali si cimentano “gli oratori per convincere l’assemblea”.
La trappola ha un effetto perverso: anche le reazioni sociali meglio intenzionate, finiscono per assumere un connotato conservativo: “era meglio prima”, e si dimenticano tutte le ragioni “vere” della necessità di cambiare.
Sia detto per inciso: il paradigma “era meglio prima” è quanto di più antipedagogico ci sia.
Non sono tra essi, ma ai colleghi più competenti di me che esplorano questo piano delle questioni, ricordo che il pensiero pedagogico, almeno nella nostra tradizione, da Socrate in poi, ha un connotato intrinsecamente “progressivo”.
Dal Fedone dei Dialoghi, a Comenius, a Dewey l’istanza pedagogica fondamentale è quella della “liberazione” delle potenzialità. Dal che se ne dovrebbe dedurre che alla scuola si dovrebbe guardare come i Padri alla Chiesa “Ecclesia sempre reformanda”.
Limitarsi a dire “era meglio prima” non appartiene alla “deontologia” pedagogica. Si rischia di dare una mano alla “cattiva politica”, che è tale anche quando “chi si oppone” dimentica le ragioni reali della necessità del cambiamento.
Per rimettere le cose sui piedi: la sfida reale, a fronte dei problemi appena accennati (la spesa per istruzione, la sua composizione, la sua ripartizione sociale) è quella di definire le “prestazioni reali” che l’operatore pubblico si impegna ad erogare rispetto ad un diritto di cittadinanza.
E’ forse meno affascinante che argomentare attorno a modelli pedagogici, ma “è la politica (e l’economia) baby..”
Se si riparte dall’impegno di dare contenuto reale ai diritti di cittadinanza ed alla produzione dei servizi che li interpretano diventa forse più agevole comprendere che gli ultimi trent’anni hanno progressivamente falsificato il “modello passato” adottato per rispondere all’integrazione della cittadinanza attraverso la spesa pubblica e il deficit.
Il modello di Thomas Marshall per intendersi: diritti civili, diritti politici e diritti sociali in una progressione storica di integrazione successiva e sempre più piena. Con il corollario dei modelli economici keynesiani di utilizzo della spesa pubblica e del deficit per finanziare l’integrazione di cittadinanza. (altro modello era “lo Stato dei produttori” inseguito tragicamente nei paesi del socialismo reale)
Da trent’anni assistiamo, più o meno consapevoli, a questa falsificazione delle certezze “passate”: i diritti civili messi in stallo da fenomeni come l’immigrazione; i diritti politici in altrettanta incertezza (che dire degli esiti “democratici” di alcune elezioni, a partire dal “quasi colpo di Stato” della Corte Suprema degli USA nel 2000, dalle elezioni in Palestina, in Algeria, in Iran, o del decadere di significato della sovranità degli Stati nazionali?), i “diritti sociali” destrutturati dalla crisi fiscale dello stato.
Certo affermare che “era meglio prima” può anche corrispondere ad una verità: ma è inutilizzabile per la politica, sia perché è inefficace rispetto ai compiti che la realtà impone, sia perché propone inevitabilmente una dimensione subalterna ai processi reali.
La nostalgia non serve per disegnare il futuro. E l’indignazione, ancorché fondata, è come il piacere dei cattivi amanti: dura un attimo e lascia il posto al sonno.
Ma se si riparte dall’impegno di dare contenuto reale ai diritti di cittadinanza ed alla produzione dei servizi che li interpretano, in questo contesto reale, diventa forse più agevole anche rintracciare il terreno di un impegno capace di misurarsi con il compito di disegnare il futuro di una istituzione, come la scuola, che richiede tempi ben più lunghi di una legislatura o di uno scorcio di legislatura.
Cioè il terreno di un impegno che unifica, lasciando alla divisione tra le ipotesi che lo interpretano e che vengono presentate “dagli oratori all’assemblea, perché decida” il compito di produrre una dialettica politica sensata, e di dare alla politica il suo senso.
Risparmiando(ci) volpi che scappano, cani che inseguono e cavalieri al galoppo.


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