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ScuolaOggi: Il vero spreco è non seminare

di Walter Tocci

29/09/2006
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ScuolaOggi

Il vero spreco è non seminare

Il Consiglio dei Ministri ha approvato la prima norma per il rilancio della ricerca e nella prossima seduta tornerà sull’argomento con altre importanti proposte. Ma non tutto è scontato. È presente anche il pericolo di colpi di cosa delle vecchie politiche.

Ci aspettiamo dalla finanziaria buone notizie, a cominciare dalla proposta che avevamo posto al centro della campagna elettorale: riaprire le porte ai giovani. Per troppi anni i migliori talenti italiani sono stati tenuti fuori dalle università e dagli enti. Un grave spreco di intelligenze e di passioni per la conoscenza. Ora finalmente si sbloccano le assunzioni negli enti di ricerca e nei prossimi giorni verrà presentato un piano straordinario per l’assunzione di 2000 giovani. Non sarà solo quantità, il nuovo si dovrà vedere nelle procedure di selezione, rigorosamente basate sul merito, secondo i più avanzati modelli internazionali. Inoltre, il ricercatore dovrà essere posto al centro, come ruolo principe del sistema della ricerca. Non sarà un barone a cooptarlo, sarà il ricercatore a scegliere l’ente o l’università dove vuole essere assunto, dove cioè gli verranno prospettati i programmi di ricerca più interessanti, e insieme all’assunzione riceverà un fondo per organizzare in piena autonomia la propria attività.

Sarà un vero scossone al sistema, un trionfo del merito. Non solo si riapriranno le porte, ma i giovani verranno subito messi in condizione di esprimersi al meglio.

Nello stesso tempo si porrà fine alla mortificazione dei ricercatori universitari. La Moratti voleva renderli invisibili ponendo il ruolo ad esaurimento. È giunto il momento di sciogliere questa tipica ipocrisia italica, per la quale quei ventimila ricercatori non si possono chiamare professori pur insegnando a tempo pieno ed essendo chiaro a tutti che senza di loro la didattica crollerebbe. Si riconosca, quindi, la terza fascia di professore a tutti i ricercatori che insegnano.

Il governo ha proposto anche una norma per risollevare gli enti di ricerca dallo stato depressivo in cui si trovano. Ci sono molte questioni da affrontare con urgenza: rilanciare il Cnr come il perno della ricerca pubblica, ricostituire l’Infm, salvare l’esperienza dell’Inoa, fermare il delirio centralistico dell’Inaf ecc. Tutto ciò sarà possibile con la proposta governativa anche se la norma dovrà essere migliorata nel dibattito parlamentare.

Da tanti anni si riformano gli enti, ma tutto si è risolto in un all’alluvione normativa che ha aumentato la burocrazie e compresso l’attività di ricerca.

È giunto il momento di spezzare le catene poste sul collo degli enti pubblici dal precedente governo per fini di controllo politico. Noi non abbiamo bisogno di mettere il collare alla ricerca, al contrario, abbiamo fiducia negli scienziati italiani, anzi li consideriamo una risorsa decisiva su cui l’Italia può puntare.

Bisognerà dare piena autonomia statutaria agli enti: siano i ricercatori a decidere come si devono organizzare e quali obiettivi perseguire. Meglio di loro non lo sa nessuno.

Non ci interessa mettere a capo degli enti gente di partito. Vogliamo dare voce ai ricercatori anche nella scelta di presidenti. Chi dirige la ricerca deve avere la fiducia e la stima di chi fa ricerca. La scienza non è mai autoritaria, è basata sulla stima e sulla credibilità. Nella ricerca il capo deve essere prima di tutto un maestro.

L’autorità di un presidente non scaturisce dalla nomina politica ma dall’autorevolezza scientifica. Quando Pistella fu posto a capo del CNR le riviste scientifiche denunciarono la totale mancanza di titoli scientifici. Se vogliamo recuperare il prestigio internazionale dobbiamo voltare pagina e chiamare scienziati di valore a dirigere la ricerca italiana.

Ma questo è solo l’incipit di una politica a largo respiro basata sul merito. La finanziaria istituirà una struttura indipendente per la valutazione del sistema della ricerca e dell’università. Dai suoi risultati dipenderà anche l’allocazione dei finanziamenti. Non ci sarà più bisogno di far parte della cordata giusta, di cercare le protezioni del politico di turno, di avventurarsi negli scambi di favore. Conterà solo la qualità della ricerca e della didattica; i migliori atenei e i migliori laboratori otterranno i riconoscimenti che meritano e i finanziamenti di cui hanno bisogno.

Noi siamo convinti che dentro le strutture pubbliche ci siano non solo bravi professori, non solo formidabili insegnanti, non solo rettori in gamba, non solo ricercatori appassionati, ma veri e propri eroi civili che dalla mattina alla sera, con competenza e dedizione, hanno profuso tante energie per fare la bella scuola, la buona università e la ricerca di qualità.

A frenare il loro impegno sono stati in tanti. Certo dall’esterno i tagli del governo, ma anche dall’interno sono venuti ostacoli dalla burocratizzazione dilagante, dalle vecchie lobbies, dal nepotismo, dai vizi peggiori della nostra accademia.

Ecco il punto: oggi vizi e virtù sono tenuti assieme da una malintesa solidarietà accademica. Agire con lo strumento rigoroso della valutazione significa liberare le virtù dalla zavorra, dare nuovo slancio riformatore, incoraggiare le energie migliori del sistema. È per questa nuova università italiana che chiediamo risorse in più nella finanziaria.

Quando chiediamo più risorse per la scuola, l’università e gli enti non siamo ciechi di fronte al baratro della finanza pubblica, nessuno di noi in questa sala nega l’esigenza di risanare il bilancio dello Stato, nessuno dimentica che fare debiti ingiustificati significa gettare macigni sul cammino dei nostri figli. Tutti qui vogliamo risanare i conti pubblici. Anzi, molti di noi hanno elaborato proposte precise in tal senso; purtroppo non furono prese in considerazione nel decreto di luglio e le riproponiamo adesso in Finanziaria. Tremonti ha aumentato la spesa pubblica di 2 punti di PIL e la Moratti non è stata da meno: centinaia di milioni di euro sprecati per istituire improbabili università, come quella in onore di Marcello Pera, per creare fantomatiche Agenzie a sostegno solo della sua campagna elettorale, per distribuire prebende a favore degli amici degli amici. C’è molto da risparmiare cancellando gli sprechi di Berlusconi, innanzitutto!

Certo che non basta, ci sono anche da combattere tanti sprechi annidati nel malfunzionamento delle strutture pubbliche, anche quelle della conoscenza.

Ma come si deve fare questa operazione? Con la sega o con il bisturi? Questo è il dilemma. Se adoperiamo la sega rischiamo di tagliare il ramo su cui siamo seduti. Se utilizziamo il bisturi si può curare la malattia con una riforma in profondità.

Abbiamo un ottimo ministro dell’Economia, una persona per bene e stimata da tutti. Purtroppo però la burocrazia di quel ministero è imbevuta di una vecchia mentalità che la porta sempre a proporre tagli un tanto al kilo, un tetto per questo, un vincolo per quello e così via.

Questi tagli alla cieca hanno sempre penalizzato le strutture virtuose, le quali avendo già ottimizzato le spese non dispongono di ulteriori margini, e, non hanno mai impensierito le strutture assistite, le quali al contrario dispongono di molte possibilità per coltivare vecchi vizi.

Le sciabolate del ministero dell’Economia sono presentate come misure di rigore e come prova di forza. In realtà sono una prova di debolezza e di incapacità nel controllare effettivamente i processi reali della spesa pubblica, entrando nel merito delle spese, cancellando quelle sbagliate e aumentando quelle meritevoli. Ci sarebbero da rivedere molte cose, nell’organizzazione e nelle tecnologie della Ragioneria e del ministero, per arrivare ad un controllo fine della spesa, ma di questa inadeguatezza si parla poco, poiché quegli uffici sono bravi a fare lezioni di efficienza agli altri, prima di guardare in casa propria.

Comunque, i tagli fatti di percentuali e di tetti assomigliano a quelli del patto di stabilità, sono cioè stupidi per dirla con le parole de nostro caro Presidente del Consiglio. Non si possono quindi delegare le scelte alla burocrazia del ministero dell’Economia. L’eccessivo potere potrebbe non essere suffragato dalla necessaria intelligenza.

Non mi intendo di scuola, ma da dilettante mi viene da pensare che è esagerato tenere in classe per 39 ore i ragazzi degli istituti professionali su un progetto educativo spesso inadeguato e ad alta dispersione scolastica. Intervenire su questi punti deboli consente di migliorare la qualità formativa e nel contempo risparmiare risorse. Se invece applichiamo i tagli generici ci teniamo il professionale che non funziona e andiamo a colpire magari il tempo pieno di una scuola elementare che in quella periferia degradata costituisce l’unica possibilità di riscatto per i ragazzi.

Riformare, riformare, riformare: è l’unica strada per i riformatori come noi, non ce ne sono altre, non sono possibili scorciatoie e tanto meno passi indietro.

Poi dovremmo riflettere meglio sulla parola “spreco” che usiamo con disattenzione, come sinonimo di dissipazione. Ci sono certamente in sala professori di latino che possono ricordarci il significato originario della parola “spreco”, che viene dal tardo latino dispergicare e prima da dispergere, cioè significa rinunciare a seminare, non dedicarsi alla crescita, perdere l’occasione di ciò che dà vita.

In questo senso pregnante della parola dobbiamo combattere gli sprechi.

E lo spreco più grande, quello che fa del male al Paese, quello che rischia di pregiudicare il nostro futuro, consiste proprio nel non utilizzare le risorse morali, civili e culturali che si trovano nella scuola, nell’università e nella ricerca e che da troppo tempo sono state mortificate, compresse e non curate.

È uno spreco pagare lo stipendio a un ricercatore e non finanziare le sue ricerche.

È uno spreco non formare un insegnante che vuole aggiornarsi per educare meglio i nostri figli.

È uno spreco lasciare che un giovane di talento se ne vada all’estero voltando le spalle con amarezza al proprio Paese.

È uno spreco tenere in naftalina un ente come l’ENEA, con una buona tradizione di ricerca, anche se appannata da un lungo disinteresse anche dei nostri governi passati. Se guardiamo ai problemi più urgenti del Paese - crisi energetica, strutture ambientali poco curate, povertà di trasferimento tecnologico - verrebbe da dire bisogna inventare l’Enea e invece lo abbiamo, ma non lo utilizziamo.

È uno spreco tenere l’ASI in conflitto con il mondo della ricerca e dell’innovazione mentre potrebbe essere il play-maker di una delle frontiere tecnologiche, quelle spaziale appunto più ricca di ricadute e legata ad una buona attitudine nazionale sia scientifica sia industriale. Il futuro di questi enti si gioca nel coordinamento di diversi ministeri. Il tavolo per l’innovazione tra Nicolais, Mussi e Bersani è una buona notizia e può dare frutti preziosi. D’altronde, il rafforzamento di queste strutture pubbliche è decisivo per attuare le nuove politiche industriali per l’innovazione se non vogliamo che si riducano a distribuire i soliti incentivi di dubbia efficacia.

È uno spreco scoraggiare gli studi universitari dei nostri giovani che sono tornati a guardare con interesse all’alta formazione, determinando un aumento delle immatricolazioni dopo un decennio di calo. Non sempre il numero chiuso è giustificato, soprattutto in un Paese che ha la metà dei laureati della media europea. Siamo arrivati a mille corsi ad ingresso limitato ed è una vera esagerazione che arriva a toccare delicati diritti costituzionali. In alcuni casi, gli odontoiatri per fare un esempio, nasce anche il sospetto che si voglia frenare l’accesso all’ordine bloccando nella culla i nuovi professionisti.

E’ uno spreco non dare ai figli del popolo la certezza economica per concludere gli studi universitari. Dobbiamo trovare i soldi per le borse di studio in modo da raggiungere l’obiettivo storico di dare una risposta a tutti gli aventi diritto, attuando l’art. 34 della bella Costituzione repubblicana: “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.

È uno spreco diminuire gli insegnanti proprio quando la scuola italiana è chiamata ad uno sforzo eccezionale, pari a quello che fece nel dopoguerra per combattere l’analfabetismo, un impegno formidabile non solo per educare i giovani, ma per riportare sui banchi anche i genitori e per dare un’istruzione ai nuovi italiani che arrivano con la pelle dei colori più diversi e con tanta voglia di imparare la nostra lingua. Nella passata legislatura siamo scesi in piazza per difendere il tempo pieno, ma ora bisogna fare di più. Le scuole devono essere aperte giorno e sera, vanno riqualificate per farle più belle e più efficienti, non solo per l’istruzione di base, ma per offrire luoghi alla libera espressione giovanile, fare educazione degli adulti, alfabetizzare gli immigrati e tante altre cose buone. Ha fatto bene Fioroni a dare priorità all’edilizia scolastica.

Non ci sarà crescita nel nostro Paese se non rafforzeremo tutta la filiera del sapere dalla scuola dell’infanzia al premio Nobel. La discussione è partita male in questi giorni. Si parla di scuola e università e ricerca solo nel capitolo dei tagli della manovra finanziaria. Sarebbe meglio discutere quanto dei 14 miliardi dedicati allo sviluppo potrà essere investito in conoscenza. Il cuneo fiscale è un impegno preso in campagna elettorale per dare una scossa positiva all’economia italiana. Ma i suoi effetti non saranno molto diversi da quelli che un tempo si ottenevano con le svalutazioni della lira, un tonico che risolleva momentaneamente l’organismo malato, ma cambia poco sul medio e lungo periodo.

Siccome la crisi non è congiunturale, è certamente strutturale, dovremo pensare soprattutto a misure di grande respiro che siano capaci di adeguare la società italiana nel suo complesso alle sfide del mondo nuovo.

Quando alziamo lo sguardo e pensiamo ai fattori che possono determinare una crescita robusta e di lungo periodo, ce lo ha ricordato recentemente il Governatore della Banca d’Italia, risulta chiaro che la cosa più importante consiste nell’arricchire i giacimenti di conoscenza del Paese.

Qui ci sono le debolezze da correggere per metterci in pari con gli altri. Nonostante la crisi siamo un grande Paese in termini di ricchezza totale. Siamo il settimo Paese per il Pil, ma siamo il ventesimo o il trentesimo per il numero di laureati e di diplomati, per l’educazione degli adulti, per il tasso di innovazione. È una ricchezza senza cultura. Per questo motivo non si cresce più negli ultimi venti anni in Italia, cioè da quando siamo entrati nell’epoca della società della conoscenza.

Investire su questi ritardi è l’unico modo per aprire una nuova fase di sviluppo del Paese. Altre cose che vanno per la maggiore rischiano di rimanere solo pannicelli caldi.

Dovremmo essere più consapevoli, rispetto ad altri Paesi, della priorità conoscenza e invece spesso lo siamo meno. Sì parla tanto di Cina. Sì, quel paese aumenta del 20% annuo lo stanziamento in ricerca e quindi raddoppia in pochi anni l’investimento complessivo. Noi siamo ancora preoccupati per le magliette a basso costo del made in China, ma a breve avremo perduto anche la competizione sulle alte tecnologie se non facciamo un balzo in avanti.

È ora di ribaltare un vecchio modo di impostare il problema. Si dice che la bassa crescita del Pil non consente di finanziare la ricerca. Dovremo cominciare a dire che solo finanziando il sapere aumenterà la crescita, non solo economica, ma civile e morale, mi permetto di dire.

Gordon Brown, nel presentare la candidatura a premier, per convincere il suo partito e il Paese non si è abbandonato alla formulette del politichese come spesso accade nel nostro dibattito, ma ha posto un solo obiettivo: elevare l’istruzione dei cittadini. E in Spagna la legge finanziaria ha scelto università e ricerca come priorità assolute.

Da questi approcci abbiamo molto da imparare.

Dare obiettivi ambiziosi e cercare strade concrete per perseguirli, questo devono fare gli uomini di Stato.

Questo è il compito che si è dato il centrosinistra e su obiettivi ambiziosi ci giudicherà il popolo italiano a fine legislatura.

In Italia abbiamo avuto un grande uomo di Stato, il primo e i pessimisti dicono anche l’ultimo, Camillo Benso conte di Cavour, che di rigore di bilancio se ne intendeva.

Si racconta che in punto di morte, prima dell’ultimo respiro, pronunciò quasi a fatica un ammonimento per le generazioni successive:

Educate l’infanzia…

educate l’infanzia e la gioventù..

governate con la libertà

Ebbe come un presagio che proprio quello sarebbe stato il punto debole del nascente Stato italiano.

Educazione è libertà

Quell’ammonimento ancora aspetta qualcuno che lo ascolti.

Walter Tocci


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