ScuolaOggi: Di Mungibeddu nui li figghi semu…
di Pippo Frisone
La recente polemica sui test di dialetto ai prof proposto dalla Lega, mi ha riportato alla memoria la scuola elementare da me frequentata tanti anni fa nel Comune di Messina.
Il mio maestro si chiamava Donato, era di Messina anche lui ed abitava nel villaggio accanto al mio.
A quei tempi, quando ancora non c’era la televisione, a scuola come in tutti gli uffici pubblici, tutti parlavano in dialetto siciliano. Penso che più o meno fosse così anche nel resto d’Italia.
Il mio maestro ci teneva, invece, che imparassimo bene la lingua italiana che in quel contesto per noi era l’equivalente di una lingua straniera.
In famiglia si parlava dialetto, per strada con gli amici e i parenti , pure.
Unica eccezione era la Chiesa. All’epoca la messa era in latino e faceva una certa impressione sentire bambini e adulti cantare o rispondere in latino, compresi gli anziani che in gran parte erano analfabeti.
Il parroco quando faceva la predica come il mio maestro erano gli unici abilitati a parlare in italiano nell’esercizio delle loro funzioni. Ma al di fuori dei rispettivi ruoli anche loro si esprimevano in dialetto.
Ma era la scuola, soprattutto, l’unico luogo dove noi alunni ci sforzavamo di parlare e di imparare bene l’italiano. Quello della lingua italiana era uno stimolo che ci faceva guardare lontano, oltre lo Stretto, un ponte vero verso il futuro che ci apriva ad un legame e ad una identità ancora più grande di quella regionale.
Eppure è stato a scuola che ho imparato miti e leggende siciliani, le Storie di Giufà, il mito di Mata e Grifone, di Colapisci.
Nell’ora di Canto i brani più gettonati oltre alla vicenda del Piave e l’inno Fratelli d’Italia, erano quelli dialettali Ciuri Ciuri, Vitti ‘na crozza e C’è la luna ‘n menz’o mari e altri ancora.
Ma sopra tutti questo che era diventato il nostro inno:
Di Mungibeddu nui li figghi semu, terra di focu, di cantu e d’amuri,
l’aranci sulu nui li pussidemu e la Sicilia nostra si fa onuri….
In quei canti sentivamo la fierezza, la bellezza e l’amore per la nostra terra ma anche tutti i suoi limiti.
L’italiano restava però l’attrazione più forte. Parlare bene in italiano destava ammirazione, incuteva un certo rispetto. Ricordo i parenti quando tornavano d’estate in Sicilia per le ferie.
Chi veniva da Genova, chi da Torino e anche i primi milanesi d’esportazione come me.
Faceva un certo piacere sentire parlare in italiano : quello sì che era il test più significativo.
E il giudizio immediato te lo davano gli stessi locali quando ti dicevano: parla come mangi!!
Sintomo dell’avvenuta integrazione al nord, di essere sistemato e di un certo benessere .
Il dialetto un ricordo, amarcord, da esercitare di tanto in tanto nella famiglia d’origine, come i sentimenti che ti legano per sempre alla tua terra d’origine.
Tutto questo per dire a quanti appoggiano la proposta dei test ai prof meridionali che non giova a nessuno fare i percorsi all’indietro, rinchiudendosi nei particolarismi locali.
La storia e la cultura della Lombardia o del Veneto o del Piemonte possono e devono essere conosciute e apprezzate come un tutt’uno con la storia e la cultura dell’intero Paese, assieme a quelle delle regioni centrali o meridionali.
Obbligare nell’era della globalizzazione i prof staccare tagliandi regionali, sottoponendoli a dei test, credo che non faccia bene a nessuno.
Io sono nato a Messina e da oltre 30 anni vivo a Milano. Gli ultimi 6 anni mi sono spostato a Legnano. Sono un contradaiolo, mi piace il Palio e a fine maggio non mi perdo mai la sfilata in costume e il carroccio. In tutti questi anni vivendo al nord ho imparato e apprezzato tante cose che hanno arricchito il mio bagaglio culturale e la mia formazione. Non costruiamo ghetti anche nelle scuole. Apriamo le finestre al mondo, contaminiamoci. Ne guadagneremmo tutti.