Scuola, Versari: "La pandemia ci ha messo alla prova. Ma i capelli bianchi mi sono venuti col terremoto"
Il bilancio del direttore dell'ufficio scolastico regionale promosso a Roma: "I miei dieci anni in Emilia-Romagna"
Ilaria Venturi
Dieci anni alla guida della scuola in Emilia-Romagna non sono pochi. E ora che Stefano Versari, forlivese, 62 anni, quattro figli ormai grandi, mazziniano-cattolico, come preferisce definirsi, lascia l'ufficio scolastico regionale è tempo di saluti e bilanci.
Direttore, partiamo dai momenti più duri vissuti dalla scuola: il terremoto e la pandemia.
«Alle cinque e mezza del mattino, ero nella mia casa a Forlì, mi chiamarono da Roma: "Parti subito, c'è stato il terremoto". Ho ancora negli occhi l'istituto Luosi di Mirandola: le pareti delle aule crollate, i quaderni ancora aperti e i banchi sotto la macerie. E poi ricordo la notte in Prefettura a Ferrara con l'allora ministro Profumo, prima della seconda scossa. Per fortuna ci furono poche vittime, ma l'edilizia scolastica fu duramente colpita, ci trovammo con 60mila studenti senza edificio scolastico a maggio. A settembre ripartimmo: fu il miracolo della coesione sociale di questa terra».
Poi è arrivato il Coronavirus...
«Il terremoto ha rappresentato uno scontro durissimo con la realtà, ma sentivi che c'era una possibilità di rinascita. La pandemia è stata, e lo è ancora, un susseguirsi di disillusioni rispetto alla speranza che coltiviamo di uscirne fuori».
Ne uscirà a pezzi una scuola chiusa, messa a distanza, riaperta, richiusa?
«Io vedo, oltre allo sbandamento e alla fragilità della scuola, che è di tutta la società, segnali enormi di ripensamento della comunità professionale: stiamo attraversando una prova durissima che ha fatto crescere le competenze dei docenti e delle scuole dell'Emilia-Romagna. E' che è stato difficile fare scuola di fronte a un nemico invisibile come il Coronavirus che, fuori dalle aule, portava molti a un senso di estraniamento: per cui per strada vedevi chi non portava nemmeno la mascherina, come fosse qualcosa che non lo riguardasse. Questa schizofrenia sociale ha fatto e fa male alla scuola che, ripeto, rimane il posto più sicuro, con tutte le misure messe in atto, soprattutto per un adolescente».
Come ha affrontato il disorientamento e la fatica delle scuole con la pandemia?
«Quello che ci ha impegnati è stato dare risposte concrete e il più veloci possibili alle domande del quotidiano: da qui sono nati i materiali per la ripartenza, note che poi ho collezionato nel libro "La scuola della nostra fiducia". Nei mesi di chiusura delle scuole in presenza e poi, a seguire, quando si è ripreso a insegnare in presenza ma a singhiozzo, intimamente, tutti coloro che fanno scuola hanno sentito echeggiare dentro di sé, pur non conoscendole, parole come quelle di José Saramago: "bisogna ricominciare il viaggio, sempre". Ho cercato di mettermi in gioco per rispondere alla necessità di interpretare di volta in volta i Dpcm assumendomi delle responsabilità. E' stato tutto un susseguirsi di note, anche in queste ultime settimane: ci ho fatto le notti. Ma i capelli bianchi mi sono venuti col terremoto».
I bambini e, forse ancora di più i ragazzi, hanno perso, e molto: non vede il danno per loro?
«Ho sempre difeso, laddove possibile, le aperture, anche al 50%. Ma non mi permetto di giudicare scelte che non sono nell'ambito delle mie competenze, bisogna affidarsi con fiducia agli esperti della sanità. Posso però dire che della perdita subita dagli studenti sono rammaricato, ma non preoccupato».
Perché?
«Chiudere le scuole è triste, sempre. Ci siamo piegati, per realismo, a fare scuola in una condizione peggiore. Gli studenti stanno perdendo competenze disciplinari, questo è vero. Ma questa durissima esperienza non sarà la rovina della loro vita. Io considero le competenze di vita che hanno acquisito nel fare un bilancio delle perdite».
Va bene la proposta avanzata già dal premier Draghi di recuperare a giugno?
«Ci sarà bisogno di incrementare competenze nelle condizioni in cui sarà possibile. Le prove Invalsi ci daranno indicazioni su cosa e quanto è stato perso. Ma non parlerei di recupero, dà l'idea che si è perso tempo, cosa non vera».
Cosa lascia dopo dieci anni alla guida della scuola di questa regione?
«Il riconoscimento del ruolo di questo ufficio: in particolare con Patrizio Bianchi assessore è cresciuta una collaborazione leale, non più di alterità contrapposte tra Stato e Regione. E poi è cresciuto il rapporto, al di là del formale, con i dirigenti scolastici. Ho girato tanto, mi sono interessato delle realtà della pianura e della montagna, ho sempre difeso le scuole periferiche della regione, con le pluriclassi, perché considero la scuola un presidio educativo e sociale. E così ho cercato di aiutare questi istituti più piccoli a rimanere ricchi, pulsanti. Quando mi sono spinto in visita all'istituto comprensivo di Bobbio i bambini mi hanno accolto con una foto di un personaggio de 'Il Signore degli anelli' e la scritta: grazie per essere venuto da noi. Porterò questi ricordi e i disegni e pensieri dei tanti alunni e studenti a Roma insieme al mio sentire umano e alle esperienze maturate in Emilia-Romagna».
Sul sostegno lei si è battuto molto, ma ancora non c'è continuità didattica per gli alunni più fragili
«Lascio 11mila posti in deroga sul sostegno concessi quest'anno, un numero enorme. Ho cercato di lavorare sia sul fronte amministrativo, che pedagogico. Se mi fossi limitato ad esortare le scuole all'integrazione senza dare i posti, o viceversa, il sistema non avrebbe retto. Invece siamo diventati un modello a livello nazionale: siamo stati primi in Italia a fare ricerche e produrre materiali innovativi sull'autismo, i disturbi specifici di apprendimento, sull'analisi del fenomeno degli hikikomori, i ragazzi ritirati nelle loro stanze. Siamo stati capaci di sollecitare la sanità e il mondo esterno. Il mio rammarico è che non ci sono riuscito sugli studenti privi di cittadinanza italiana».
L'Emilia-Romagna accoglie la percentuale maggiore di studenti di orgine straniera nelle aule. Vede il rischio di una crescita delle classi-ghetto?
«Se non cambieremo le politiche sociali e di edilizia popolare avremo sempre più scuole-ghetto, non solo classi. Alla terza generazione di immigrati ci ritroveremo nella stessa situazione delle banlieue francesi e ne pagheremo le conseguenze».