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Scuola, troppe verifiche e interrogazioni? «Gli studenti fanno bene a protestare»

Lo psicologo Matteo Lancini: «È una reazione positiva: peggio quando il disagio si esprime, come sta succedendo, con atti di autolesionismo e tentativi di suicidio». Il ritorno a scuola? «Doveva essere un momento di riprogettazione, a volte si è trasformato in un recupero di voti»

11/05/2021
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Corriere della sera

Valentina Santarpia

«Ben venga che gli studenti del Manzoni a Milano abbiano occupato per protestare contro l’eccesso di verifiche al rientro: almeno orientano il disagio all’esterno, e non su se stessi come fanno tanti altri»: Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, esperto e studioso di adolescenti, commenta così l’occupazione di questa mattina. Anche perché erano giorni che stava studiando l’evolversi della situazione: i casi di autolesionismo e i tentativi di suicidio sono aumentati tra i ragazzi, come ha denunciato anche il presidente del Consiglio superiore di sanità Franco Locatelli nell’ultima audizione in Senato.

Cosa sta succedendo?
«Molti insegnanti hanno inteso il rientro a scuola come il momento in cui recuperare a tutti i costi gli apprendimenti, come se non tenessero conto del fatto che c’è una pandemia a livello mondiale: io stesso ricevo e lavoro con dirigenti preoccupati per il comportamento dei propri professori».

Ma maggio è sempre stato il mese delle verifiche, prima della fine dell’anno...
«Certo, perché il momento della raccolta, della sintesi dell’anno, attraverso le valutazioni, ma a mio avviso questo avvenimento del ritorno a scuola rappresentava un’occasione straordinaria di incontro tra un adulto significativo, l’unico possibile da incontrare dopo i genitori, e gli studenti, e doveva rappresentare un momento eccezionale: non nel senso che l’insegnante doveva limitarsi a chiedere come stavano i ragazzi, o a fare l’amico. L’autoevolezza, il rigore, la responsabilità, avrebbero dovuto spingere gli insegnanti a interpretare questo momento con le caratteristiche giuste, come un reincontro, di riprogettazione, riorganizzazione del futuro, che tenesse conto di quanto stava accadendo. La maggior parte degli studenti non aveva un atteggiamento trasgressivo, era contento di tornare a scuola e reincontrare tutti, , ma in alcune situazioni si è trovato di fronte ad una rincorsa alla verifica, soprattutto in presenza, che secondo me mal si addice col momento».

Come reagiscono i ragazzi?
«Chi riesce a protestare, come gli studenti del Manzoni, assume un atteggiamento costruttivo: tanto più che proprio quelli del Manzoni sono gli studenti che occupavano qualche mese fa per rientrare a scuola il prima possibile. Ma chi per caratteristiche proprie, per fragilità personali, non riesce a esprimere le difficoltà, può rivolgere l’attacco a sè: autolesionismo, tentativi di suicidio, sono esplosi. È il frutto di una delusione davanti alla possibilità di vedere degli adulti che invece di cogliere le disponibilità individuali, vanno in direzione di contribuire ad una situazione di stress. E il rischio di veder sparire questi ragazzi dal radar è enorme. Non bisogna ridurre tutto al fatto che i ragazzi non hanno voglia di far niente».

Se potesse dare un consiglio agli insegnanti, cosa direbbe loro?
«Non dobbiamo generalizzare innanzitutto perché molti professori sono riusciti a cogliere il momento. Ma laddove ci sono stati sovraccarichi, bisognerebbe spingerli a farsi qualche domanda. Secondo loro, i ragazzi hanno vissuto un anno sabbatico, se la sono goduta, o è stato un anno di iniziative straordinarie, anche a livello legislativo, di difficoltà per tutti? Il ministro Bianchi lo ha detto: prestare particolare attenzione alla relazione, al momento. Ripeto, l’aspetto più importante è che la riapertura, a seguito di questi avvenimenti, era un momento straordinario di incontro, e non un momento di recupero, di numeri e voti».

Gli studenti la vivono come una punizione?
«No, come una fragilità adulta: sono abituati che gli adulti in una fase così complessa siano più concentrati a portare a casa i propri obiettivi che focalizzare i bisogni di chi hanno davanti, e questo è particolarmente grave, quando un adolescente di fronte a una difficoltà non trova degli adulti identificati in quello che è accaduto, che tengano conto della realtà attuale. Ci sono ragazzi che non volevano tornare proprio per questo, e magari hanno meno voce di altri. Seguo ragazzi che hanno medie tra l’8 e il 9 ma avevano attacchi di pancia di fronte al programma di interrogazioni».

Che tipo di modello bisognerebbe adottare?
«Bisognerebbe cambia la visione dell’adolescente: abbiamo sistemi didattici formativi che funzionano in base alla colpa, e invece l’adolescente odierno va coinvolto attraverso modelli di cooptazione. Bisognerebbe valutare le competenze e non le conoscenze, capire che anche certi tipi di valutazione che usano internet aumentano le competenze dei ragazzi, e non partire dall’idea di un soggetto che devi riempire, e poi ti deve restituire. Gli apprendimenti si recuperano, non avremo medici incapaci di operare una milza o architetti che faranno cadere i ponti perché hanno perso questi mesi, ma la relazione non si recupera così facilmente».

Deve ammettere che però il rischio di accumulare gap in questi anni c’è...
«Anche se qualche ritardo lo hanno avuto, il problema è trasformare questa crisi in occasione di crescita: non credo che sia il famoso mese che passerà alla storia per averli interrogati tutti, e dove collocarli rispetto alle conoscenze delle singole materie. A meno che non continuiamo a considerare la scuola un ambiente del tutto estraneo alla vita dei nostri studenti. Non è così: la scuola dovrebbe essere il baricentro, il focus centrale della crescita, il luogo dove si costruisce il futuro».


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