Scuola e disabilità, nessun aiuto al sostegno: il sistema di inclusione è al collasso
L’analisi del direttore della Fondazione Agnelli nel giorno del seminario interattivo su Rep Tv. "Il Covid contribuisce a mettere in luce problemi ed errori vecchi di anni"
Andrea Gavosto
Durante il lungo lockdown scolastico, gli alunni con disabilità sono stati fra quelli che hanno sofferto di più: le pratiche inclusive, infatti, mal si adattano all’insegnamento a distanza. Per aiutare le scuole a fare inclusione anche nell’emergenza, Fondazione Agnelli, Gedi, Google e le università di Bolzano, Trento e Lumsa hanno dato vita a “Oltre le Distanze”, un programma di formazione online, che si conclude oggi con l’ultimo webinar su Rep Tv. La partecipazione di migliaia di insegnanti ed educatori ai webinar e gruppi di lavoro è stato un bel segnale, che dimostra la generosità e la sete di formazione che animano gran parte della scuola. Ci saremmo aspettati che, alla ripresa delle scuole, la tutela di questi ragazzi fosse una priorità nelle scelte del ministero e dei sindacati. Al contrario, l’enorme ritardo nelle nomine degli insegnanti di sostegno e la difficoltà ancora più grande a trovarne di qualificati sono indizi allarmanti di una situazione critica: il sistema di inclusione scolastica rischia ormai il collasso.
Anche stavolta il Covid c’entra poco, se non perché contribuisce a mettere in luce problemi ed errori vecchi di anni. Intendiamoci, nei principi il modello d’inclusione italiano resta all’avanguardia, da quando negli anni Settanta, a differenza degli altri Paesi avanzati, si decise di integrare i ragazzi con handicap nelle classi per valorizzarne le capacità e responsabilizzare i compagni alla realtà della disabilità. Sono le pratiche a non funzionare più, quasi negando i principi. In particolare, non funziona più l’abitudine radicata — con eccezioni nell’infanzia e nelle primarie — a delegare al solo insegnante di sostegno la responsabilità dell’allievo con disabilità, quasi che il suo compito fosse di togliere un impiccio ai colleghi che insegnano le materie. Estremizzo, naturalmente. Però, come negare quanto sia ancora frequente vedere il docente uscire fuori di classe con il “proprio” allievo? Le stesse famiglie con figli disabili sembrano assuefatte all’idea del sostegno come unica ciambella di salvataggio a cui aggrapparsi.
Questo meccanismo, in sé comunque sbagliato, si è inceppato, perché — con la crescita delle disabilità certificate — sono enormemente aumentati i posti di sostegno: quest’anno potrebbero arrivare a 170mila, circa un quinto dell’intero corpo docente. La crescita del numero — alla lunga, insostenibile — sembra ormai del tutto scissa dalla qualità: le università, che dovrebbero occuparsi della specifica formazione di questi insegnanti, non riescono o non vogliono più farlo. Ciò spiega perché più di un terzo dei docenti di sostegno non sia qualificato, secondo l’Istat. Vengono nominati tardi e sanno fare poco. Tutto ciò non è coerente con i principi dell’inclusione, che richiedono — ma l’abbiamo scordato — il completo coinvolgimento di tutti i docenti della classe. Quando è stato fatto, come in una recente sperimentazione in Trentino, i risultati sono stati incoraggianti, con benefici per gli allievi disabili, ma — va sottolineato — anche per i compagni di classe.
Noi guardiamo con favore a un modello dove un minor numero insegnanti di sostegno, tutti però altamente qualificati, sappia guidare e coinvolgere in nuove pratiche inclusive i colleghi curriculari, a loro volta responsabilizzati, incentivati e adeguatamente formati. Che inclusione e riforma del sistema di formazione dei docenti siano temi scelti per Next Generation EU fa pensare che i tempi siano giusti. Politica, scuola e famiglie devono però convincersi che il modello fondato sul solo docente di sostegno non funziona più. Né è l’unico possibile.
L’autore è il direttore della Fondazione Agnelli