Scuola: con i nuovi esami di Stato non ci resta che piangere
A quando l’abolizione del valore legale del titolo di studio, cui questo totale svuotamento di senso dell’esame di Stato sembra francamente preludere?
Anna Angelucci
Abbiamo avuto l’esame tradizionale in cui si portavano tutte le materie del triennio, poi quello sperimentale in cui le materie orali erano solo due, poi quello più recente con tre prove scritte, tutte le materie dell’ultimo anno e i raccordi interdisciplinari. Adesso abbiamo un esame senza le discipline, in cui l’orale verte sull’alternanza scuola-lavoro e su generiche questioni di cittadinanza e Costituzione, di cui, nella migliore delle ipotesi, nelle scuole si sarà parlato occasionalmente e solo con insegnanti particolarmente motivati. Molti di noi in quinta elementare sono stati sollecitati in passato a fare ben di più. Ma forse oggi si vogliono studenti con competenze basiche, assolutamente conformi ad aspettative di pensiero e di scrittura omologate e rigorosamente convergenti su obiettivi di regolazione formale. Studenti-bambini, obbedienti e spediti, abili nel comporre i pensierini ma acritici e intellettualmente passivi. E così attrezzati, con questo bagaglio leggero di skills ma totalmente privi di consapevolezza culturale e capacità metacognitive, andranno all’università o entreranno nel mondo del lavoro. La parola ‘creatività’ è bandita, il pensiero, l’immaginazione, l’interpretazione – e l’espressione – originale e divergente devono essere considerati sbagliati: la griglia di correzione della prova d’italiano fornita dal Ministero obbliga tutti ad una pedissequa valutazione della forma esatta, a prescindere da qualunque consistenza del contenuto. Non è importante cosa viene detto, ma come viene detto. Se la grammatica, cioè la morfologia, ovvero la forma del pensiero, è corretta, quel pensiero, ben costruito, è automaticamente accettabile e valutabile positivamente. A quale pericolosa china può preludere, fosse anche per eterogenesi dei fini, una simile impostazione culturale e didattica?
A differenza dei più, non ho provato particolare sgomento nel leggere i banalissimi esempi di tracce di prima prova proposti dal MIUR per i nuovi esami di Stato 2019[1]. Che anzi mi paiono ben congegnati e coerenti con le indicazioni fornite dal gruppo di lavoro guidato da Luca Serianni[2] e dal DM 769/2018, ovvero il ‘Quadro di riferimento per la redazione e lo svolgimento della prima prova scritta dell’esame di Stato’ (e relativa griglia di valutazione)[3] che, con il D.lgs 62/2017 che norma i nuovi esami di Stato, ne costituisce la cornice culturale e legislativa di riferimento.
Cassata la terza prova scritta multidisciplinare e l’elaborato scritto anch’esso pluridisciplinare su una tematica scelta dallo studente, restano le prime due e un colloquio orale general generico, in cui si parlerà dell’alternanza scuola-lavoro, di ‘cittadinanza e Costituzione’ e si darà un’occhiata alle correzioni delle prove scritte. Stop. Naturalmente per essere ammessi all’esame bisognerà avere la sufficienza in tutte le materie, ma non sempre, se il consiglio di classe motiva adeguatamente. Aumenta il valore del credito scolastico del triennio, cui da quest’anno si attribuiscono punteggi maggiori.
A quando l’abolizione del valore legale del titolo di studio, cui questo totale svuotamento di senso dell’esame di Stato sembra francamente preludere? Svuotamento di senso testimoniato vieppiù dall’obbligatorietà dei test Invalsi computer based per tutti dal prossimo anno a certificare dall’esterno competenze in italiano, matematica e inglese (per queste ultime sono previste convenzioni con gli enti privati certificatori di lingua straniera). E, nella sostanza, già ampiamente attestato con lo svolgimento anticipato dei test d’ingresso all’università.
In confronto, la tanto vituperata maturità sperimentale rimasta in vigore per trent’anni con le due materie orali e una commissione tutta esterna assume un inimmaginabile crisma di serietà: almeno quelle erano due materie vere, che dovevi aver studiato, su cui venivi interrogato da insegnanti in carne ed ossa di quelle discipline di altre scuole statali; erano materie piene di autori, questioni, problemi, teorie di cui dovevi parlare, su cui dovevi ragionare, che eri minimamente tenuto a conoscere. Sollecitavano riflessioni, implicavano capacità critico-analitiche, procedimenti logici, bagagli culturali epistemologicamente fondati. E questo a prescindere dagli esiti, ovviamente differenziati da studente a studente e ovviamente distribuiti lungo un naturale gradiente nel raggiungimento degli obiettivi formativi, a seconda dei molteplici elementi che caratterizzano i percorsi scolastici di ciascuno.
Abbiamo avuto l’esame tradizionale in cui si portavano tutte le materie del triennio, poi quello sperimentale in cui le materie orali erano solo due, poi quello più recente con tre prove scritte, tutte le materie dell’ultimo anno e i raccordi interdisciplinari. Adesso abbiamo un esame senza le discipline, in cui l’orale verte sull’alternanza scuola-lavoro e su generiche questioni di cittadinanza e Costituzione, di cui, nella migliore delle ipotesi, nelle scuole si sarà parlato occasionalmente e solo con insegnanti particolarmente motivati.
Molti di noi, ne sono convinta, in quinta elementare sono stati sollecitati in passato a fare ben di più. Ma forse oggi si vogliono studenti con competenze basiche, assolutamente conformi ad aspettative di pensiero e di scrittura omologate e rigorosamente convergenti su obiettivi di regolazione formale. La parola ‘creatività’ è bandita, il pensiero, l’immaginazione, l’interpretazione – e l’espressione – originale e divergente devono essere considerati sbagliati: la griglia di correzione della prova d’italiano fornita dal Ministero obbliga tutti ad una pedissequa valutazione della forma esatta, a prescindere da qualunque consistenza del contenuto. Non è importante cosa viene detto, ma come viene detto. Se la grammatica, cioè la morfologia ovvero la forma del pensiero, è corretta, quel pensiero, ben costruito, è automaticamente accettabile e valutabile positivamente. A quale pericolosa china può preludere, fosse anche per eterogenesi dei fini, una simile impostazione culturale e didattica?
Ma lo sanno al Miur e in Parlamento che le materie storiche, all’interno delle quali andrebbero contestualizzate le tematiche di cittadinanza e Costituzione, sono state draconianamente ridotte dalla riforma Gelmini in tutto il quinquennio delle scuole superiori di ogni ordine e grado? E che dunque, non solo non si può fare degnamente nessun percorso strutturato di cittadinanza e Costituzione ma neanche studiare la storia del Novecento? Ma lo sanno al Miur e in Parlamento che l’alternanza scuola-lavoro, introdotta obbligatoriamente dalla riforma Renzi, è stata una pagliacciata per la maggior parte degli studenti italiani, costretti a lavorare o a far finta di lavorare qua e là per ottemperare a quell’obbligo demenziale, con un monte orario che raggiungeva addirittura le 400 ore nei tecnici e nei professionali? Di che cosa parleranno gli studenti dell’alberghiero all’orale dell’esame di Stato, di quando cucinavano o servivano gratis ai tavoli del convegno politico di turno? O gli studenti dell’agrario, costretti a stare sui trattori o nelle stalle dell’azienda agricola spesso annessa all’istituto, inseguiti dai loro docenti per fare un po’ di matematica o di italiano? O tutti quegli studenti che hanno fatto i camerieri da McDonald’s o che hanno fatto fotocopie o tabulato dati senza imparare niente in questo o quell’ufficio? Quale somma ingiustizia si consumerà nei prossimi esami di Stato, quando i commissari delle scuole di serie A raccoglieranno compiaciuti i resoconti di rarefatte esperienze, vere o presunte, universitarie, archivistiche, museali, mentre quelli delle scuole di serie B, ovvero la stragrande maggioranza, sentiranno gli studenti raccontare come, tra mille difficoltà, abbiano dovuto accettare di tutto, a cominciare dalla lesione del loro sacrosanto diritto allo studio? (Ma non la voglio fare più drammatica di quello che è, avendo alle viste una regionalizzazione dell’istruzione che, con la riformulazione locale dei programmi e dell’organizzazione scolastica, ci farà rimpiangere queste questioni nazionali come il miraggio di un orizzonte perduto).
Dunque, perché mai la prima prova, quella di italiano, uguale per tutti, avrebbe dovuto restare immune da questo generale processo di svuotamento di senso? Dopo anni di esami di Stato in cui ad articolate analisi del testo e del contesto si accompagnavano proposte di stesura di articoli di giornale, poi divenuti saggi brevi, insieme a temi di storia o di attualità, potenzialmente impegnativi, nella forma o nel contenuto, per chi non si fosse adeguatamente esercitato o per chi non conoscesse la storia, la letteratura, l’arte, l’economia, la politica o la scienza nella loro evoluzione moderna e contemporanea, adesso ci si prospetta un esame semplificato, guidato, limitato, sintetico, rapido (per il quale le sei ore canoniche di svolgimento appaiono davvero troppe: perché non ridurre anche queste?).
Non che mancassero le criticità, naturalmente, su cui negli ultimi anni i burocrati del ministero erano già intervenuti anticipando processi di semplificazione: testi più accessibili, meno documenti su cui esercitare l’arte dell’assemblaggio, domande più facili. Ma stavolta la spinta alla rarefazione sembra aver subito un’accelerazione improvvisa e con l’acqua sporca è stato gettato via pure il bambino: abolito il saggio breve, abolito il tema di storia, abolito il tema di attualità, restano un paio di analisi del testo letterario, il riassunto e commento di un editoriale ‘di penna’ e un testo espositivo-argomentativo su un brano dato. La prima tipologia prevede, in primis, operazioni di riscrittura che, è facile prevedere, saranno di parafrasi nel caso di un testo poetico e di riassunto nel caso di un testo in prosa, intendendo la riscrittura come funzionale alla verifica della comprensione del testo. La seconda parte della prova prevede un commento personale, da svolgersi in forma discorsiva (cioè aperta, non strutturata) ma comunque seguendo una progressione tematica che implichi e testimoni uno svolgimento organizzato, in cui l’inserimento in contesto storico preciso è opzionale perché sono sufficienti ma non necessarie “sintetiche indicazioni sul testo e sull’autore”. La seconda tipologia di prova prevede la lettura di un editoriale, la sua comprensione attraverso un processo di decostruzione del testo quasi di tipo narratologico a partire dal riconoscimento delle sequenze (continuando a perpetrare i danni che questo approccio ai testi ha prodotto in decenni di didattica scolastica) e un commento argomentativo conclusivo, con limitazioni relative alla lunghezza e all’articolazione del contenuto ma anche relative alle strategie argomentative da utilizzare, intese semplicemente come uso appropriato dei connettivi. La terza tipologia consiste nell’esposizione e commento di un brano (una citazione d’autore? uno stralcio d’articolo? un aforisma?) su argomenti di attualità vicini alla dimensione esperienziale degli studenti (intesa, immaginiamo, in termini assai generici, se si vuole individuare una dimensione esperienziale comune a milioni di adolescenti diversi per carattere, esperienze, contesti). Anche questa prova non è libera perché si chiederà al candidato di seguire una determinata scansione interna e finanche di suddividere la sua riflessione in paragrafi muniti di un titolo (di cui, francamente, proprio non si riesce a capire la valenza).
Il tutto corredato da una generica griglia di valutazione ministeriale che consente di rilevare competenza linguistica e capacità espressiva, poiché “questa prova presuppone due attività: la capacità di comprendere i testi proposti, a partire dalla consegna richiesta e dalle eventuali note informative, e la produzione di un elaborato scritto. La valutazione dovrebbe tener conto, anzitutto, della comprensione della consegna e dei testi proposti. Quanto alla produzione dell’elaborato scritto, saranno oggetto di valutazione gli aspetti formali ed espressivi e la capacità di sviluppare un discorso critico”.
Ma, qualcuno dirà, e i contenuti? Ecco la risposta della commissione Serianni: “Nel caso di un elaborato vincolato a un testo la valutazione del contenuto riguarda principalmente la pertinenza dell’analisi e del commento con il testo di partenza, la selezione e la gerarchizzazione degli argomenti, la presenza nel commento di elementi che attestino le conoscenze del candidato e un certo grado di rielaborazione critica personale. Nel caso di un elaborato svincolato da un testo la valutazione del contenuto riguarda principalmente l’aderenza alla tematica proposta nella traccia, i riferimenti culturali e l’adeguata strutturazione degli argomenti (temi, sottotemi e loro pianificazione)”.
La forma, la forma. Con un’insistenza esasperata. Anche il contenuto deve essere valutato prevalentemente, se non esclusivamente, sotto il profilo formale. Tutto il discorso si articola intorno al paradigma delle competenze, trovando sbocco nella scheda degli indicatori per la valutazione degli elaborati, in cui anche l’ampiezza delle conoscenze dei riferimenti culturali, nonché l’espressione di giudizi critici e valutazioni personali (rigorosamente agli ultimi due posti dell’elenco) rientra nella fattispecie delle competenze, perché non ci si riferisce alla ricchezza, alla profondità, all’originalità, alla qualità del contenuto ma sempre, esclusivamente alla sua forma: alla sua pertinenza espositiva, alla sua aderenza alla traccia, alla sua adeguatezza argomentativa. La rielaborazione critica personale, che è la cosa più importante da osservare al termine dell’intero percorso di studi, alle soglie dell’università o dell’inserimento nel mondo del lavoro, viene marginalizzata: accontentiamoci di ‘un certo grado’. A che serve l’interpretazione? A che servono le inferenze? A che serve l’astrazione? A che serve l’immaginazione? A che serve il pensiero simbolico?
Ma c’è infine un ultimo aspetto della questione che mi pare totalmente assente dalla riflessione sulla scuola e sulle sue riforme, tuttavia degno di attenzione: la persistenza della contraddizione giuridica, culturale e politica tra la legge che regola gli esami di Stato e quella che ne regolamenta le prove: la prima specifica che “l’esame di Stato conclusivo dei percorsi di istruzione secondaria di secondo grado verifica i livelli di apprendimento conseguiti da ciascun candidato in relazione alle conoscenze, abilità e competenze proprie di ogni indirizzo di studi,con riferimento alle Indicazioni nazionali per i licei e alle Linee guida per gli istituti tecnici e gli istituti professionali, anche in funzione orientativa per il proseguimento degli studi di ordine superiore ovvero per l’inserimento nel mondo del lavoro”; la seconda prevede un’unica prima prova uguale per tutti.
Delle due l’una: o si producono prove di verifica diverse, che verifichino conoscenze, abilità e competenze proprie di ogni indirizzo di studi, o al contrario, come auspico, si procede ad una revisione dei curricoli, che cancelli la distinzione, nell’insegnamento dell’italiano, tra licei, tecnici e professionali, che garantisca a tutti lo stesso monte ore, che articoli per tutti lo stesso profilo educativo, che non distingua tra chi può limitatamente aspirare a una padronanza basica della lingua e dunque della cultura in funzione di un’attività di servizio, e chi possa invece ottenere “strumenti culturali e metodologici per una comprensione approfondita della realtà” di cui il possesso della lingua è precondizione di partenza.
Perché nel caso della prima prova di italiano, materia comune a tutti gli indirizzi scolastici e dunque prima prova per tutti gli studenti, questa contraddizione crea un’ingiustizia profonda a monte: l’accesso ad un insegnamento dell’italiano “ricco” per gli studenti liceali e “povero” per quelli dei tecnici e ancor più dei professionali, e produce due tipi di conseguenze negative a valle: o l’impossibilità, data a priori, per un’ampia platea di studenti (sicuramente moltissimi tra quelli dei tecnici e dei professionali) di effettuare adeguatamente le prove d’esame, come è accaduto in passato, oppure, in alternativa, come appare oggi, di fronte a queste ipotesi di prove insignificanti che fanno davvero piangere, una facilitazione e banalizzazione estrema, che corrisponde e rinforza un’immagine infantile, acritica e intellettualmente passiva dello studente chiamato a svolgerle. Uno studente-bambino, totalmente privo di consapevolezza culturale e capacità metacognitive, forse competente ma di sicuro insipiente.
[1] https://www.miur.gov.it/-/esame-di-stato-2018-2019-secondaria-di-ii-grado-on-line-i-primi-esempi-di-tracce-per-la-prova-di-italiano-della-nuova-maturita-per-accompagnare-gli-st
[2] https://www.miur.gov.it/documents/20182/0/documento+di+lavoro.pdf/051e56ce-1e57-471d-8c9f-9175e43b8c0c
[3] https://www.miur.gov.it/documents/20182/0/QDR+prima+PROVA+26+novembre.pdf/caceeda3-0cce-434f-a1d6-c8aa4e30f71d