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Scuola, compiti a casa per il ministro

Marina Boscaino Non c’è nulla che suona più inopportuno - per chi vive quotidianamente la scuola - dell’improvvisazione di chi non ha voglia di perdere tempo fino in fondo a capire la complessità del sistema dell'istruzione

24/10/2006
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Non c’è nulla che suona più inopportuno - per chi vive quotidianamente la scuola - dell’improvvisazione di chi non ha voglia di perdere tempo fino in fondo a capire la complessità del sistema dell'istruzione. A un certo momento, per circostanze più o meno misteriose, si ritiene che si debba parlare di scuola; è quello il breve tempo in cui la scuola sale alla ribalta (in genere sotto una luce negativa: le valutazioni Invalsi che gettano un’ombra tetra sui destini dell’istruzione italiana; il rapporto Pisa dell’Ocse, che ci vede sempre e puntualmente agli ultimi posti nelle classifiche; l'episodio di mala-scuola; il titolo urlato sui tagli, con conseguente (ipocrita) indignazione di quasi tutti).
In quei brevi spazi di tempo assistiamo a un curioso (ma non inspiegabile) moltiplicarsi di «casi» che riguardano la scuola. Determinati, recentemente, dalle dichiarazioni - più o meno condivisibili - del ministro Giuseppe Fioroni, che si sta rivelando un comunicatore niente male: «Voglio mettere in piedi una linea di indirizzo della scuola che restituisca tempo e creatività ai ragazzi, consentendo loro di realizzare se stessi anche nelle ore successive alla fatica in classe. (...) Credo che i compiti dovrebbero essere svolti prevalentemente a scuola», e così via. Proposito che certamente gli avrà guadagnato stima e rispetto da parte di gran parte dei quasi 8 milioni di studenti italiani. La dichiarazione è stata ripresa e commentata variamente, dando luogo a un vero e proprio caso: «compiti a casa e stakanovismo pedagogico» come l’ha chiamato Barbellini Amidei sul Corriere. Di Fioroni è stato apprezzabile finora proprio lo sforzo di acquisire responsabilmente consapevolezza rispetto al complicato settore cui è stato destinato. Però esistono alcuni ambiti su cui un ministro della Pubblica Istruzione - soprattutto se medico - non ha veramente la necessità di intervenire. Uno di questi è la gestione della didattica, che dovrebbe essere di competenza esclusiva dell'insegnante - fermo il rispetto degli ovvi criteri.
Si continuano a usare i numeri come se fossero gli unici descrittori della realtà, che invece è molto più complessa e ricca di sfumature di quanto sia comodo pensare. Ancora l’Ocse rivela che siamo il Paese dove i ragazzi rimangono più ore in classe e si studia di più durante il pomeriggio e le vacanze estive. A fronte di tutto questo, ci sarebbero i devastanti risultati relativi alle competenze degli studenti di cui abbiamo letto e che sono stati confermati recentemente dalla nuova indagine. Del significato strumentale che spesso si tende a dare a quei numeri e a quelle cifre si è detto più volte. Non voglio entrare nel merito del dibattito. Mi limito a considerare che tra gli insegnanti - come in tutte le categorie professionali - esistono quelli bravi, consapevoli e preparati e quelli che non lo sono: anche sul lavoro da impartire a casa ciascuno evidenzia una propria linea didattica, più o meno efficace. In generale, l'idea che ho rispetto all'impegno pomeridiano degli studenti - oltre a quella ovvia che i compiti vanno somministrati considerando quanto viene impartito dagli altri docenti e nei limiti del garantire ai bambini e ai ragazzi qualche ora pomeridiana di libertà - è che si debba considerare una necessaria riflessione sui contenuti appresi nel corso della mattinata, che solo in seguito possono essere realmente metabolizzati. E che tale riflessione ne stimoli l'autonomia. E, infine, che tale riflessione non sia necessariamente destinata a reprimere la creatività dei ragazzi, purché l'insegnante abbia voglia di perdere tempo a individuare strategie e modalità finalizzate a stimolarla.
Non condivido dunque l’interpretazione vessatoria del lavoro a casa come un insopportabile carico arbitrario che costringerebbe, secondo Barbellini Amidei i genitori a trasformarsi per «quieto vivere in truffaldini ghost writer dei figli». Interpretazione che dà anche il senso di uno scollamento tra intenzioni educative della scuola e della famiglia - evidentemente pericolosamente contrapposte - in mezzo alle quali si trovano i ragazzi. Il commentatore cita una ricerca di Daniele Cecchi, recentemente pubblicata da Il Mulino, secondo la quale «genitori attenti e competenti hanno figli attenti e competenti, ai quali più facilmente si apre il futuro»; una fotografia piuttosto fedele della realtà, che ci parla di destini individuali socialmente determinati, ai quali solo la scuola pubblica può dare risposte. È la conclusione che, francamente, lascia un po' disorientati: «Potrei abbreviare concretamente osservando che nelle case di chi ha libri e lauree è più facile con l'aiuto dei genitori fare quegli stessi compiti che non trovano collaboratori in famiglia nelle case dove mamma e papà non hanno avuto soldi e modo per studiare ieri e per aiutare i figli oggi». Provo a suggerire che gli ultimi avrebbero ulteriori difficoltà a trascorrere il proprio tempo libero in attività sportive, notoriamente costose. Ma soprattutto che il problema dei compiti pomeridiani è totalmente marginale rispetto alla disparità del successo formativo in studenti appartenenti a famiglie di livelli culturali e socio-economici differenti. Che è una delle grandi problematiche nel nostro paese. Dalle quali «casi» come questi distraggono l'attenzione, che sarebbe piuttosto da concentrare sul finanziamento alla scuola privata, su un paese che stenta a investire in conoscenza, sulle condizioni della scuola «reale» che vive, al di là dei numeri; e su un articolo in Finanziaria relativo all'innalzamento dell'obbligo scolastico, scritto in maniera talmente ambigua da non lasciare troppe speranze sul fatto che quelle diverse condizioni socio-economiche potrebbero continuare a perpetuare destini socialmente determinati nei ragazzi del nostro paese.


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