Scienza e Covid-19, ovvero come affrontare rischi “imprevedibili”
Tanto più è sorprendente e angosciosa l’impreparazione delle nostre società di fronte alla diffusione del Covid 19 quanto risulta ormai chiaro che “si sapeva”
Ana Millan Gasca
Tanto più è sorprendente e angosciosa l’impreparazione delle nostre società di fronte alla diffusione del Covid 19 quanto risulta ormai chiaro che “si sapeva”: la circolazione dei patogeni nel mondo animale selvatico e il rapporto fra essere umano, animali domestici e selvatici; la diffusione delle epidemie nelle comunità umane; i comportamenti collettivi in situazioni di emergenza. La divisione della comunità scientifica in compartimenti stagni impedisce di comporre la big picture, almeno parzialmente ricomposta in un’opera letteraria come Spillover di David Quamen: “traboccamento”. La parola preparedness è emersa negli Stati Uniti, in stretto legame con la prontezza di reazione (readiness) di fronte alla catastrofe potenzialmente rappresenta dalle guerre. Al War Preparedness Committee parteciparono molti celebri matematici americani e rifugiati, come Norbert Wiener e John von Neumann. Non possiamo prevedere quando avverrà un terremoto, si può prevedere un uragano soltanto con ore di anticipo, non possiamo prevedere quando e dove avverrà uno spillover, e nemmeno una crisi economica, ma sono tutte circostanza verso le quali ci possiamo preparare. Se non si è ritenuto di continuare a destinare fondi ciò si deve all’indebolimento dell’idea di bene comune di fronte all’idolo del profitto nel rampante capitalismo finanziario. E cosa abbiamo fatto con l’educazione dello scienziato? Sembra che cerchiamo di formare degli idiot-savants, costringendo i giovani a una specializzazione esasperata e privandoli di stimoli culturali. Il depauperamento del valore culturale della scienza e del fecondo interscambio con le società ad alto impatto tecnologico appaiono davvero una questione cruciale dalla quale ricostruire un mondo più sicuro e che si riscopra umano.
1. Nella molteplicità assai vivace degli interventi da più punti di vista che affollano lo spazio pubblico in questo periodo non mi sembra affiori con chiarezza la consapevolezza della spaventosa impreparazione delle cosiddette “società avanzate” del nostro pianeta di fronte alla diffusione del coronavirus Covid19 fra gli esseri umani iniziata alla fine dell’anno scorso.
Certamente è importante ora pensare il futuro immediato, in termini di ripresa della vita economica e di vie di uscita effettive da questa pandemia (e soprattutto la difficile combinazione di questi due obiettivi). Ma soltanto su questo futuro immediato si devono concentrare tutti i nostri sforzi volendo trarre qualche lezione da questa traumatica, tragica vicenda? Sicuramente nei prossimi anni si investirà un po’ di più in ricerche virologiche ed epidemiologiche… senza pensare che il rischio biologico è solo uno fra tanti altri rischi, cui si continua a reagire volta per volta, come è stato segnalato in tempi recenti ad ogni catastrofe amplificata da o dovuta all’impreparazione: in Italia in occasione dei terremoti e dei disastri dove si è reso evidente il dissesto idrogeologico, negli Stati Uniti ad esempio all’indomani l’uragano Katrina del 2005 (dalla prominente geografa Susan L. Cutter nel libro dell’anno della Britannica, si veda qui). Gli studiosi di igiene pubblica che coltivano questo approccio sono costretti a confutare coloro che sostengono l’inutilità di prepararsi a eventi unici e imprevedibili: si veda ad esempio qui («Although natural and human-caused disasters are a constant feature of modern life, each individual disaster can indeed be seen as a unique confluence of incertainties»), eravamo nel 2013 e comunque per dare forza alle argomentazione era necessario richiamare catastrofi ancora fresche nella memoria (la pandemia di influenza H1N1 del 2009, l’incidente nucleare di Fukushima, il Deepwater Horizon, l’uragano Sandy).
Un atteggiamento razionale, opposto al fatalismo, ha condotto nel corso del Novecento allo sviluppo della idea di preparadness come ambito di attività istituzionale statale sostenuto da un campo di studi radicalmente interdisciplinare volto a considerare futuri scenari, intesi come una sorta di accompagnamento al libero sviluppo della scienza e della tecnologia anzitutto nelle applicazioni militari, ma anche in collegamento con le attività economiche, l’urbanizzazione, l’interconnessione ecc., prospettando nel dettaglio possibili reazioni e soluzioni, in grado di vigilare sul loro impatto nel mondo e i rischi connessi.
La tecnologia militare (nucleare, missilistica, aeronautica) era al centro della questione, e di conseguenza l’idea stessa di una science of preparedness si è appannata dopo la fine della Guerra fredda, per ritornare in auge volenti o nolenti, quasi come obbligata reazione di autoprotezione, di fronte a molteplici eventi catastrofici all’inizio del nostro secolo. Si è sviluppata progressivamente difatti una visione larga della preparedness come sfera del nostro vivere civile sostenuta da un campo articolato di ricerca e sviluppo. Eppure, un interesse che sale e scende a seconda dell’andamento degli eventi certamente non riesce a concretizzarsi e può addirittura essere controproducente.
Tanto più è sorprendente e angosciosa l’impreparazione delle nostre società di fronte alla diffusione del Covid 19 da un area della Cina a tutto il pianeta quanto risulta ormai chiaro che “si sapeva”, ossia che si tratta di una circostanza prospettata e considerata nei singoli aspetti che la compongono: la circolazione dei patogeni nel mondo animale selvatico (in particolare i coronavirus) e il rapporto fra essere umano, animali domestici e selvatici (le zoonosi); la diffusione delle epidemie nelle comunità umane; i sistemi sanitari di fronte a situazioni di emergenza; gli effetti, le terapie, dei corona virus nell’organismo umano; i comportamenti collettivi in situazioni di emergenza; i meccanismi della presa delle decisioni e la comunicazione. Questo “sapere” doveva pero essere ulteriormente elaborato nel confronto fra tutte le discipline: ognuno sapeva e pubblicava soltanto di un aspetto della questione. Emerge drammaticamente la divisione della comunità scientifica in compartimenti stagni disciplinari che impedisce di comporre la big picture quale, ad esempio nell’emergenza oggi in corso, era stata almeno parzialmente ricomposta in un’opera letteraria o comunque non uscita da un centro o agenzia di ricerca come Spillover di David Quamen: “traboccamento”, non a caso una metafora in grado di esprimere il nucleo della situazione alla quale prepararsi e da affrontare effettivamente, nei suoi innumerevoli rivoli medici, epidemiologici, politico-istituzionali, economici e sociali.
Nell’immagine qui sotto uno fra i numerosi articoli pubblicati in anni passati: pubblicati in una sede che altri non leggono, con l’esasperazione delle divisioni disciplinari e del senso stesso della comunicazione scritta dei risultati in ambito scientifico deformata in indice di valore o eccellenza delle ricerche, da catturare nell’immediato, vivendo alla giornata.
La scienza si trova ora a essere chiamata in causa, poiché appare impotente nel suo dubitare metodologico ed è sentita come una delle componenti della situazione complessiva, parte della soluzione ma in parte sussunta in essa. E difatti siamo entrati attualmente nella fase in cui c’è stato bisogno di scrivere per difendere la scienza, richiamando alla memoria dell’opinione pubblica un bignami dei limiti e delle virtù della scienza (scomodando i filosofi della scienza come Popper per lo più dimenticati). Gli scienziati, ci si può legittiamamente chiedere, dov’erano, perché non si parlavano fra di loro per il bene di tutti noi? La preparadness è evocata anche in cerchie scientifiche solo in occasione di un disastro, ad esempio in un editoriale di Science nel 2017, in reazione immediata ai monsoni nel sudest asiatico seguiti dagli uragani Harvey e Irma.
2. La parola preparedness e la visione che essa rappresenta è emersa negli Stati Uniti, in stretto legame con la prontezza di reazione (readiness) di fronte alla catastrofe potenzialmente rappresenta dalle guerre viste dapprima da lontano, (prima la Grande Guerra, poi la guerra mondiale 1939-45) e nel seguito come in sospensione, durante la Guerra Fredda; eppure in ognuno dei casi drammaticamente realtà intravista. Il “Preparadness movement” statunitense sotto la guida dell’ex presidente Theodore Roosevelt fu un primo, limitato esempio dell’idea di non essere colti impreparati da plausibili rischi, condiviso da pochi quando l’immagine era quella dell’invasione del neutrale Belgio da parte dei tedeschi e rafforzando la sua presa di fronte al numero di morti e alle circostanze drammatiche dell’affondamento della nave britannica Lusitania da parte di un sottomarino tedesco. Questa parola ebbe una forza pregnante dopo l’inizio della seconda guerra mondiale, anch’essa un conflitto visto dalla distanza per un certo tempo, e attorno a essa si coagulò attenzione e coinvolgimento attivo della comunità scientifica: al War Preparedness Committee congiunto della American Mathematical Society e della Mathematics Association of America parteciparono molti celebri matematici americani e rifugiati, come Norbert Wiener e John von Neumann.
Il governo federale statunitense non si era mai impegnato nella risposta ai disastri naturali o altro prima di allora. L’instabile equilibrio militare nucleare con l’Unione Sovietica e lo sviluppo dei grandi sistemi della difesa stimolò lo sviluppo di una visione di preparedness che, pur legata a un potenziale conflitto bellico, considerava imponderabili legati a errori umani e anche a effetti non ben chiari dei dispositivi tecnologici. Perché era acuta allora la sensazione che la massiccia trasformazione tecnologica in atto poteva essere vista, come ha scritto Thomas Hughes, come una seconda creazione, dopo quella nel racconto mitico della Genesi [1] Thomas P. Hughes, Rescuing Prometheus. Four monumental projects that changed the modern world, Vintage Books, New York, 2000; incombeva quindi agli stati contemporanei essere pronti e vegliare per la popolazione e la vita di tutti, attraverso la conoscenza volta allo studio dei rischi. Una traccia significativa dell’esigenza e le difficoltà di governare attivamente e di non farsi trascinare ciecamente dalla tale ri-creazione del mondo in atto – pur preservando la libertà della ricerca e la libertà di iniziativa imprenditoriale – si trova in scritti e dichiarazioni istituzionali di von Neumann di quel periodo, come il suo celebre articolo Can we survive technology? sul magazine «Fortune» (1955).
L’istituzione che rappresentò per un periodo queste idee fu la RAND Corporation fondata nel 1948, che metteva a contatto centinaia di studiosi di ogni disciplina, palestra delle allora giovani scienze sociali. Herman Kahn sviluppò in questo contesto la sua metodologia di scenari, che cercava di fondere e trarre qualche cosa da un conglomerato di conoscenze scientifico e tecniche attraverso vere e proprie “sceneggiature”, narrazioni delle singole sintesi di realtà possibili, per immaginare il non-pensabile o intravvisto con la pregnanza richiesta dall’ignoto potenzialmente catastrofico. Nel 1979 fu creata la FEMA, Federal Emergency Management Agency, ancora molto legata agli scenari di rischio di attacco nucleare. Tuttavia, idee di scenari, prospettive e futurologia, collegate alla trasformazioni galoppanti del mondo del dopoguerra erano state sviluppate nel frattempo anche altrove e anche in ambito industriale da personaggi con formazione e profilo ibrido, come nel caso di Gaston Berger, industriale-filosofo-funzionario francese.
L’esplosione della controcultura alla fine degli anni Sessanta portò l’esplosione delle ricerche di storia e filosofia della scienza e della tecnologia da parte di giovani scienziati e ingegneri del blocco occidentale, ostili al complesso militare-scientifico-industriale – come fu identificato allora – ma motivati dalla stessa preoccupazione per la “seconda creazione”. Decisero di abbandonare le loro ricerche e dedicarsi a esplorare la comunità scientifica, gli interni meccanismi di affermazione di teorie o di individuazione di linee di ricerca, l’intreccio complesso fra scienza e tecnologia, società, politica ed economia.
3. In fondo, le istituzioni nazionali mai realmente cristallizzate rivolte alla preparedness altro non sarebbero che la continuazione e ampliamento della infrastruttura scientifica di cui si sono dotati gli stati nazionali nel corso dell’Ottocento (corpi degli ingegneri militari ed statali, istituti cartografici e geografici nazionali, istituti nazionali di statistica, consigli nazionali delle ricerche..) in una alleanza virtuosa fra scienza, tecnica e fini politici-istituzionali. Si tratta di prepararsi a rischi derivati dall’intreccio tra i fenomeni naturali del nostro pianeta (uragani e altri fenomeni meteorologici, straripamenti, terremoti, patogeni di ogni genere visto che abbiamo neutralizzato ogni nostro predatore) e la presenza antropica (le città, i trasporti e le infrastrutture che si “oppongono” agli impedimenti naturali, quali distanze, oceani, fiumi, irregolarità dei terreni, impianti e industrie che riversano i loro prodotti artificiali, le fattorie e i nostri stessi corpi e le nostre azioni o intenzioni). Non possiamo prevedere quando avverrà un terremoto, si può prevedere un uragano soltanto con ore di anticipo, non possiamo prevedere quando e dove avverrà uno spillover, e nemmeno una crisi economica, ma sono tutte circostanza verso le quali ci possiamo preparare: progettando scenari in modo tale da minimizzare i rischi collegati e individuare e descrivere prospettare un ventaglio di forme di reazione o singole iniziative coordinate, grazie sia alle scienze naturali che alle discipline umane e sociali. Infatti, soltanto da un’attività collaborativa, in cui le scienze naturali e ingegneristiche interagiscono con tutte le discipline (giuridiche, antropologiche, sociologiche, economiche, della comunicazione e così via) e anche alla creazione letteraria e cinematografica e altro, attorno a questa idea chiave di “trovarsi pronti”, di sostenere la presa delle decisioni immediate e a medio e lungo periodo, può offrire davvero qualcosa di fronte al mix davvero complesso delle forze e delle dinamiche naturali e il nostro essere nel mondo. Ma non siamo tornati alla poesia e alle canzoni per trovare energie e impeto per confrontarci con la reclusione e la situazione di emergenza?
4. Non abbiamo creduto nella preparedness e non abbiamo investito in essa, creando una struttura istituzionale scientifico-tecnologica, nei singoli paesi o a livello dell’Unione Europea. Susan Cutter ha descritto le alterne vicende di fondi e di direttori della FEMA statunitense a confronto con la politica e con il susseguirsi di svariate gravissime situazioni di emergenza.
Di quella visione, chiaramente formulata come attività istituzionale alimentata dalla costante ricerca interdisciplinare e mai cristallizzata, sono persistiti brandelli, che forse hanno contribuito a nascondere in questi anni la lamentabile impreparazione che ora è emersa con tanta chiarezza, troppo tardi. Lo “studio degli scenari” è sopravvissuto come patrimonio manageriale di alcune grosse aziende [2] Thomas J. Chermack, Scenario planning in organizations, Berrett-Koehler Publishers, 2011. La emergency preparedness è andata avanti coltivata marginalmente in istituzioni di salute pubblica già sopraffatte da un presente contrassegnato da tagli di fondi e aumento incessante di burocratizzazione controllatrice (la bibliografia in rete sulla preparedness rinvia principalmente a riviste del settore public health). Qua e là sono state commissionati rapporti e fondati piccole istituti allo sbaraglio, ossia senza fondi e senza uno scopo chiaro, prive del tutto di una catena di trasmissione con la politica (governo e parlamento) e con la comunità scientifica. Di questi rapporti, come quello venuto fuori in Germania durante l’accelerazione della pandemia, abbiamo sentito parlare in queste settimane; e basta digitare pandemia e unione europea in un motore di ricerca per vedere affiorare rapporti commissionati negli ultimi anni e rimasti lettera morta a fluttuare nella rete.
Queste rovine lasciate dalla fine della guerra fredda e dalla fine dell’Unione Sovietica si spiegano in parte per il rifiuto delle forti connotazioni militari della preparedness, come un suo peccato originale: eppure quel momento che ricordiamo per la caduta del muro di Berlino ha vissuto la catastrofe di Chernobyl. Al paradigma militar-nazionalista è stato sostituito quello internazionalista delle organizzazioni collaterali alla stessa ONU, in questo caso l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), che abbiamo visto affogata nelle stesse criticità che paralizzano tutte queste istituzione e le fanno diventare parte delle situazioni invece di luoghi del coordinamento e dell’attivazione delle risposte.
Certo, il concetto di preparedness come preparazione a rischi imprevedibili appare in qualche modo paradossale, soprattutto nel nostro mondo spensieratamente attaccato alla rete e al cellulare, intento a massimizzare il profitto e a minimizzare la spesa per il bene comune e di più fragili. Quando finalmente, come specie umana, ci si sente finalmente non più condizionati dalla nostra estrema fragilità fisica e in balia a mille e continui pericoli, dovremmo riconoscere di averne creato dei nuovi e oltretutto ci dovremmo impegnare a in un continuo immaginare nuove situazioni catastrofiche ed emergenze [3] si veda l’analisi proposta da Anders Sandberg nella voce in accesso libero “Human extinction from natural hazard events” nella Oxford Research Encyclopedia Natural Hazard Science, 2020. Che senso ha (in termini della nostra rampante “accountability”) investire denaro ed energie nel progettare scenari attorno a hazard events che potrebbero non avverarsi mai, nel costruire risposte (non solo teoriche, ma con dispositivi di riconversione o altro pronti ad essere attivati) di cui non dovremmo mai (forse) fare uso? In fondo, le uscite di emergenze esistono da ben poco nel nostro mondo. Eppure, poiché è indubbio che “The field itself was forced into prominence in the decade after 2001 by domestic terror attacks, floods, hurricanes, tornadoes, and pandemics (both threatened and actual»), se non si è ritenuto di continuare a destinare fondi a sostenerla, sembra incontestabile che ciò si deve all’indebolimento dell’idea di bene comune di fronte all’idolo del profitto nel rampante capitalismo finanziario e alla deriva culturale tecnoscientifica, imperniata sull’innovazione come unico fine della conoscenza umana.
Paradosso nel paradosso, la fantascienza è contemporanea di questo intero processo, in un crescendo che si esprime oggi in produzioni di ogni genere e nazionalità, i film e le serie TV prospettano crisi di ogni genere dove la scienza e la tecnica, le interconnessioni e le possibilità aumentate che esse ci offrono, sono onnipresenti insieme ai rischi naturali su cui nulla possiamo (un esempio per tutti, la recente serie belga Into the night con l’aereo, portatore del rischio o della salvezza, e dove la catastrofe proviene dal sorgere del Sole, che da agognato nelle civiltà antiche diventa qui minaccioso).
Certo nel mondo accademico non può non colpirci particolarmente il nostro stesso atteggiamento di ignavia. In un discorso agli studenti del MIT nel 1955, von Neumann diceva:
Gli scienziati … sono una parte decisiva della nostra civiltà nell’era atomica. …. La scienza e gli scienziati sono ormai coinvolti nell’interesse pubblico in un senso nuovo e in ordini di grandezza che non sarebbero stati immaginabili mezzo secolo fa … dobbiamo ammettere che l’educazione dello scienziato del futuro è incompleta nella misura in cui si limiti ai suoi temi tecnici professionali; egli deve conoscere qualcosa di storia, di legge, di economia, del governo e della pubblica opinione. IL nostro scopo è di realizzare un aggiustamento il più soddisfacente possibile alle nuove condizioni. Dobbiamo farlo in modo intelligente e veloce. Ma dobbiamo faro senza mettere in pericolo i fondamenti su cui poggiano e prosperano le scienze stesse. [4] tr. it in Giorgio Israel, Ana Millán Gasca, Il mondo come gioco matematico. La vita e le idee di John von Neumann, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 138-139).
Cosa abbiamo fatto con l’educazione dello scienziato? Sembra che cerchiamo di formare degli idiot-savants, costringendo i giovani a una specializzazione esasperata e privandoli di stimoli culturali e aggancio con la storia delle loro discipline, con la filosofia della scienza e quant’altro. La stessa critica della scienza di stampo controculturale, vivace e fruttuosa, che cercava di dare un contributo alle stesse questioni poste nelle cerchie della preparadness segnato dal contesto militare, è stata accantonata progressivamente e sostituita da una paternalistica e missionaria attività di divulgazione scientifica che impoverisce per primi gli stessi scienziati. Come ha scritto Massimiano Bucchi, in una grande insalata e un aggancio infernale fra scientisti a oltranza e “scientisti passivi che vorrebbero che la scienza aderisse completamente a bisogni, aspettative e resistenze della società”, ci si avvita attorno a uno sviluppo in avanti senza orizzonte critico: “la società usa la scienza come scorciatoia per evitare di interrogarsi su di sé e sul proprio futuro; la tecnoscienza si fa carico delle paure e dei desideri sociali più disparati ”[5]. Massimiano Bucchi, Scientisti e antiscientisti, Il Mulino, Bologna, 2010. Il depauperamento del valore culturale della scienza e del fecondo interscambio con le società ad alto impatto tecnologico appaiono davvero una questione cruciale dalla quale ricostruire un mondo più sicuro e che si riscopra umano.