Sapere è potere
L'll ottobre la scuola torna in piazza con lo slogan "Non c'è più tempo" Sinopoli, Flc Cgil: la vera emergenza è l'università, l'unica in grado di fare sviluppo
LEFT AVVENIMENTI
Donatella Coccoli
Non c'è dubbio, sono lontani i tempi cupi dei tagli del ministro Gelmini. E anche quelli del successore Profumo che nel suo breve mandato sotto il governo Monti si è distinto per la lotta alla dispersione scolastica grazie, però, ai fondi europei recuperati dal ministro Barca. Attorno a Maria Chiara Carrozza, il nuovo responsabile del dicastero dell'Istruzione, il clima è molto diverso. Anche perché il suo decreto legge del 12 settembre "L'istruzione riparte" rappresenta un'inversione di rotta. Per la prima volta, infatti, dal 2008, nel sistema formativo sono previsti investimenti (400 milioni di euro) e possibilità di reclutare personale. Ma dopo cinque anni e dieci miliardi di euro tolti a scuola e università, con la perdita di oltre 130mila posti di lavoro e il calo di iscritti negli atenei, la svolta deve essere cruciale. Per una politica dello studio capace di incidere sullo sviluppo sociale ed economico. «Quale ruolo hanno i saperi nella nostra società?», si chiede Roberto Campanelli, che fa parte del coordinamento dell'Unione degli studenti. «È su questo che bisognerebbe ragionare. Dopo anni in cui l'istruzione è stata considerata un peso, un costo, la scuola pubblica è rimasta spogliata di dignità e di attenzione nei confronti degli studenti e dei docenti. Eppure, una società più alfabetizzata, che riesce a raggiungere livelli alti del sapere ha meno problemi sociali, è più creativa e può trasformare le intelligenze in motore di arricchimento anche economico» afferma il portavoce dell'Uds. Ma al di là degli obiettivi ideali da raggiungere nell'istruzione pubblica - che in altri Paesi europei, pur in crisi, sono stati recepiti da tempo - rimangono le battaglie immediate. L'Uds e Link coordinamento universitario negli anni "caldi" della riforma Gelmini hanno dato vita alla Rete della conoscenza e ora indicono per 1'11 ottobre una manifestazione in tutta Italia. Lo slogan è "Non c'è più tempo". L'urgenza riguarda soprattutto gli interventi in materia di diritto allo studio. Con la crisi, con l'incubo degli affitti aggravato dallo spettro della "Service tax" - piombata come una tegola dopo l'abolizione dell'Imu - poter contare sulle borse di studio è importante, soprattutto per chi si trova in condizioni economiche disagiate. Nel decreto "del fare", alla voce "welfare dello studente" è previsto un aumento di 100 milioni al fondo statale integrativo. «Sono cifre irrisorie, rispetto a quanto è stato tolto negli anni. Servirebbero altri 350 milioni solo per gli idonei», commenta Roberto Campanelli. Anche Alberto Campanelli, portavoce nazionale di Link, è critico: «Sul versante della stabilizzazione e del reclutamento dei docenti, il decreto presenta novità positive ma è totalmente insufficiente per quanto riguarda il diritto allo studio. Se nella legge di stabilità non ci saranno cambiamenti, gli investimenti per gli studenti saranno comunque inferiori a quelli di quest'anno, e cioè di 151 milioni», sostiene Campanelli. Una situazione che conosce bene Federica Laudisa, dell'Osservatorio diritto allo studio del Piemonte. «È positivo che abbiano destinato 100 milioni al fondo statale. Purtroppo, però, è una cifra minima. E anche se sommata ai 12 milioni e mezzo previsti per il 2014, è tra le più basse degli ultimi anni. Nel 2012 il finanziamento era stato di 162 milioni, nel 2009 di 246 milioni, un incremento deciso dalla Gelmini che però in precedenza aveva azzerato le risorse». In Italia tra fondi statali, regionali e le entrate delle tasse regionali al diritto dello studio (che pagano gli stessi studenti) non si arriva a 500 milioni. In Francia e in Germania un terzo degli studenti ha una borsa, in Italia non sono nemmeno il 10 per cento. «Parigi e Berlino sborsano addirittura due miliardi per il diritto allo studio. Senza pretendere queste cifre astronomiche, basterebbe guardare alla Spagna dove i fondi nel 2010-2011 ammontavano a 900 milioni», conclude Federica Laudisa. Poi c'è un altro problema da risolvere: «La disomogeneità tra le regioni sulle modalità di accesso alle borse di studio», riprende Campanelli. Da Nord a Sud, infatti, cambia la soglia di reddito oltre la quale non si ottengono assegni. Ora si tratta di individuare e garantire una volta per tutte i Lep (livelli essenziali di prestazioni) su tutto il territorio nazionale. Ma se per la scuola un po' di risorse vengono investite, nel decreto legge del governo Letta «sull'università e la ricerca c'è molto poco», denuncia Francesco Sinopoli segretario nazionale Flc Cgil. «Oggi la vera emergenza è quella: vengono chiusi corsi su corsi, cala l'offerta formativa insieme al numero di iscritti. E il reclutamento - continua il sindacalista - continua a essere bloccato. E non solo perché non ci sono risorse ma anche perché la famosa abilitazione nazionale basata sui criteri dell'Anvur (Agenzia nazionale di valutazione) non ha portato risultati soddisfacenti». Le cifre parlano chiaro: secondo i dati già forniti da left del 31 agosto, i corsi universitari nel 2013 sono 4.324, con una flessione del 21 per cento rispetto ai 5.519 del 2007. E il declino universitario italiano è palese rispetto all'Europa e ai Paesi asiatici, dove invece la rincorsa al sapere è uno dei fattori di sviluppo. Se i laureati nella media Ocse sono il 40 per cento della popolazione, in Italia sono solo il 21 per cento. Ed è chiaro che i ritardi di oggi li pagheremo domani. «Proviamo a immaginare cosa sarà dell'Italia nel 2040 quando nel resto del mondo i livelli di istruzione saranno ancora più alti», fa notare Sinopoli. Che come soluzione vede solo una strada: «Aumentare il numero dei laureati, aumentare l'offerta formativa, qualificarla. E quindi rifinanziare i fondi per il funzionamento ordinario degli atenei, ricominciare ad assumere persone». Stessa cosa vale per gli Enti pubblici di ricerca (Epr) in cui serve un piano straordinario di reclutamento dei precari e nuove assunzioni. «Nel decreto c'è qualche segnale per gli Epr: meno passaggi burocratici e autorizzazioni e i nuovi assunti all'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. Ma occorre un piano nazionale della ricerca. La Francia ha stanziato qualcosa come 800 milioni per la nanoelettronica», conclude Sinopoli. «Parigi vuole competere nell'ambito della grande strategia di "Europa 2020". Investe fondi statali, rafforza la politica della ricerca. Che poi diventa anche politica industriale ». Perché non si possono separare istruzione e lavoro e, come dice Roberto Campanelli «il problema dell'Italia è anche nel sistema produttivo, incapace di assorbire le intelligenze che il nostro sistema formativo - pur con tutte le difficoltà - riesce a far emergere».