Salviamo l'ultimo giorno di scuola
Mezzo milione di bambini senza il rito di fine anno Perderlo non è più una questione di istruzione ma di simboli, di relazioni, di ricordi ed esperienze
Antonio Polito
Un click sul tasto «Leave Meeting» di Zoom. Così Mary, mamma di Riccardo, immagina l’ultimo giorno di scuola di suo figlio, uscito di classe un anonimo giovedì di marzo, per non tornare mai più fra i compagni di cinque anni di elementari. Si avvicina il fatidico momento di giugno in cui ogni anno, tra l’eccitazione per l’estate incipiente e la commozione per la fine dell’infanzia, quasi mezzo milione di bambini si costruiscono le immagini del loro primo passato, un album di ricordi fatto di volti di amici che forse non incontreranno mai più nella vita, o forse sì, da grandi, come in quei film dove all’improvviso uno ti compare davanti e ti dice: «Ehi, ti ricordi di me? Andavamo a scuola insieme». Quel momento, quest’anno, non ci sarà. O, al massimo ci sarà su Zoom. Leave Meeting. ID 83814751325. «Per tutta la vita, Riccardo, con queste due parole ricorderai di aver concluso la tua scuola primaria».
Non a caso si chiama «ciclo» scolastico. Perché è una piccola Era nella storia di una persona.
Simona, anche lei mamma di un alunno di quinta, ma a Milano, dove l’addio prematuro alla scuola è avvenuto anche prima, dice che ora quel «salto» da un ciclo all’altro, cui di solito si dedica tanta parte dell’ultimo quadrimestre, sarà un salto nel buio. «Siamo andati a casa quel venerdì di febbraio a preparar la valigia per Scuola Natura, partenza prevista lunedì, prima esperienza, sospirata e attesa dai bambini, degna chiusura di un meraviglioso quinquennio, e non siamo più tornati». Ed è cominciato così quel periodo in cui «noi genitori — scrive Anna — siamo stati quotidianamente educatori, terapisti, medici, psicologi, maestri e professori, animatori, meccanici, idraulici, artigiani creativi, cuochi, sarti, colf, allenatori, parrucchieri...». La famiglia, la più grande impresa italiana, non ha chiuso mai.
Un altro genitore, Michele, racconta invece la «maledizione» che ha inseguito il figlio: si perse il primo giorno delle elementari cinque anni fa perché incappò in uno sciopero degli insegnanti contro la «buona scuola», si perderà l’ultimo giorno quest’anno perché incappato nel virus. I bambini — dice sconsolato — vengono sempre per ultimi.
Dei danni educativi, di istruzione, di didattica, che la fine definitiva e prematura dell’anno scolastico, deliberata con troppo anticipo per non pensare che i suoi motivi non siano solo sanitari, ma organizzativi, e forse anche sindacali, hanno già scritto in molti su questo giornale. I docenti hanno spesso — non sempre — fatto miracoli con la Dad, l’acronimo che sta per didattica a distanza — ma il «corpo docente» — ha notato Paolo Di Stefano — si chiama corpo non a caso: è davvero difficile insegnare da remoto a bambini tra i sei e i dieci anni. Poco si è invece discusso dei danni «sociali» che il vuoto lasciato dalla scuola comporta a quell’età. Perché crescita e maturazione sono fatte soprattutto di relazioni. E proprio queste sono venute completamente a mancare. Anzi, peggio, si sono trasformate in relazioni virtuali. Se è difficile per gli adulti tenere in vita un’amicizia, un equilibrio affettivo a distanza, solo su WhatsApp, per l’arcipelago di incomprensioni, confusioni, qui pro quo che una relazione digitale porta inevitabilmente con sé, figurarsi per un bambino che vuol dire cavarsela in una chat di classe. Liti e gelosie da playground, in tempi normali relativizzate dalla triangolazione fisica, dal linguaggio del corpo, da una risata, da una battuta, da una spinta, dall’arrivo di un altro amico, dalla presenza di un adulto, diventano «assolute» in rete, e sembrano tragedie, fratturano amicizie che si pensavano eterne, restituiscono una sensazione di irrimediabile solitudine. Forse è per questo che molte ricerche indicano una diversa risposta al lockdown da parte degli adolescenti, che sono stati generalmente meno travolti emotivamente e più capaci di recuperare il rapporto coi genitori: perché i teenager avevano già una pratica di relazioni virtuali, e hanno saputo gestirle meglio. Ma per i bambini più piccoli è stato un debutto troppo anticipato, un corso accelerato alla «insocievole socievolezza» del genere umano, che ha provocato un cumulo di dolori, certo recuperabili a quell’età, ma non meno turbanti.
Sappiamo che era complicato fare diversamente. E del resto è ormai tardi per fare paragoni con altri Paesi che stanno riaprendo prima le scuole, innanzitutto perché ci si doveva pensare per tempo (ci si deve pensare per tempo anche per settembre) e poi perché non è che gli altri Paesi abbiano sempre fatto cose più giuste di noi. Ma è innegabile che la movida ha riaperto e la scuola no.
Nell’anniversario della morte di Aldo Moro, mi è capitato di leggere un libretto di Umberto Gentiloni sul «Carteggio di solidarietà», i diecimila messaggi spediti da gente comune alla famiglia dello statista durante e dopo il suo rapimento. La gran parte erano lettere di bambini delle elementari, in gruppi o da soli, che stavano elaborando quella tragedia nazionale di cui parlavano tutti, anche in casa, insieme a maestre e maestri. Ne venne fuori un esercizio collettivo di educazione civica che aiutò non poco a elaborare il dramma che viveva la nazione, e contribuì a tenerla in piedi. Di fronte al coronavirus l’assenza della scuola è stata anche questo: lo spegnersi della fiaccola della ragione, del dialogo tra pari età. Un danno incalcolabile. Ma forse ancora rimediabile, almeno simbolicamente. Se solo si consentisse, non dico ovunque, non dico per tutti, anche solo una classe per città, rispettando tutte le regole sanitarie, magari all’aperto, in un cortile o in un parco, a un gruppo di bambini italiani di dire addio ai loro compagni, per segnare la fine di un ciclo e l’inizio di un altro. C’è un membro del governo, la viceministro Ascani, che dice che è possibile. Perché non ci proviamo almeno? Varrebbe quanto anche più di un sorvolo delle Frecce tricolori, a dare fiducia e a testimoniare ostinazione.