Risorse e università: c’è chi danza sotto la pioggia e chi danza per un po' di pioggia
Il problema, a oggi, non è concentrare i finanziamenti su poche realtà, ma supportare l’intero sistema universitario
(di Elisabetta Cerbai, farmacologa, Università di Firenze; Roberto Mordacci, filosofo, Università Vita Salute San Raffaele, Milano; Antonio Musarò, istologo, Sapienza Università di Roma; Michele Simonato, farmacologo e tossicologo, Università di Ferrara; Mauro Tulli, grecista, Università di Pisa; Giuliano Volpe, archeologo, Università di Bari ‘Aldo Moro’)
“Basta finanziamenti a pioggia per le Università” - hanno recentemente scritto Tito Boeri e Roberto Perotti sulle pagine di La Repubblica - “per far funzionare la ricerca bisogna concentrare i fondi pubblici sugli Atenei migliori”, come in altri Paesi.
Il principio che le risorse non debbano essere sprecate ma distribuite in base a criteri di merito è ovviamente condivisibile. Tuttavia, questa proposta si inserisce in un filone di interventi che si sono susseguiti nel corso degli ultimi anni e si sono moltiplicati negli ultimi giorni e che propongono lo spostamento della ricerca verso istituti “campioni di R&S” e pochissimi Atenei, perseguendo presunti modelli tedeschi o britannici, che spesso esistono solo nella fantasia di chi scrive.
A questi si sono aggiunti interventi (ultimo quello su Repubblica del prof. Viesti), tesi a riportare il dibattito su un piano che supera il tema – sia pure rilevante – dei finanziamenti per mettere in guardia sulle conseguenze che un piano del genere potrebbe avere sulla resilienza del nostro sistema universitario già duramente provato.
Il nostro è un sistema universitario molto antico, che si è caratterizzato da subito come diffuso, a differenza di quello di altri Paesi. La maggior parte delle Università storiche italiane sono nate prima del ’500, quando in altri Paesi ce n’erano pochissime. L’idea della centralizzazione, dunque, non riflette la nostra storia.
Togliere Parigi alla Francia o Londra alla Gran Bretagna significherebbe molto di più che togliere Roma all’Italia. Gruppi di ricerca di grande qualità, spesso vere eccellenze nei diversi ambiti scientifici e umanistici, sono presenti in quasi tutte le università. Che senso avrebbe trasformare sedi che esistono da 6-700 anni in super-licei, per centralizzare la ricerca in nuovi istituti super-finanziati e in 4-5 mega-Atenei?
Ovviamente le infrastrutture esistenti andrebbero potenziate e rinnovate, ma va tenuto in conto che, come dimostrano la storia passata e ancor più quella recente, la loro fruibilità in ogni campo è tanto maggiore quanto più ampia e diffusa è la rete di laboratori e centri che vi afferiscono. Gli investimenti andrebbero quindi orientati alla creazione di reti che favoriscano le integrazioni didattiche e di ricerca tra le varie sedi.
Chissà poi a quale pioggia di finanziamenti Boeri e Perotti fanno riferimento: il dato drammatico per il mondo della ricerca italiano è piuttosto la scarsità di risorse. Noi investiamo in Ricerca e Sviluppo molto meno di altri Paesi: 1,45% del PIL contro una media europea del 2,1% (Fonte OECD, dati 2019). L’Italia ha inoltre molti meno ricercatori di altri Paesi dell’eurozona: il numero di ricercatori ogni mille occupati è di 6,3 in Italia, contro una media UE di 8,9 (Fonte OECD, dati 2019). Sono numeri drammaticamente insoddisfacenti se si confrontano con quelli dei paesi all’avanguardia negli investimenti per la ricerca pubblica, quali Corea, Israele, Svizzera e Svezia, o anche Francia e Germania.
Nonostante le numerose difficoltà, una burocrazia asfissiante, le poche risorse a disposizione e il perdurante disinteresse delle forze politiche, le università italiane rimangono, nel panorama nazionale e internazionale, uno dei comparti più produttivi in quantità e qualità dei prodotti della ricerca, e contribuiscono non solo alla crescita culturale del Paese, ma anche al suo tessuto sociale ed economico, colmando, con progetti in collaborazione e con reti pubblico-pubblico e pubblico-privato, le distanze geografiche e socio-economiche che ipotesi di centralizzazione finirebbero invece per assecondare.
Questa produttività in didattica, ricerca e terza missione è valutata periodicamente da un’agenzia indipendente, l’ANVUR. È vero, come affermano Boeri e Perotti, che l’entità del finanziamento premiale che consegue a tale valutazione è esigua, ma questo dipende, ancora una volta, dall’esiguità delle risorse investite. Una condizione che non affligge quelle fondazioni private che pure attingono – senza valutazioni e senza bisogno di quote premiali - ai soldi pubblici.
Esiste quindi un capitale umano che cresce nelle Università proprio in virtù della capacità di fare ricerca e che nel titolo più alto di “dottore di ricerca” riconosce l’attitudine a sviluppare un pensiero autonomo, critico, originale, transdisciplinare. Si attende da anni un nuovo decreto sui dottorati che semplifichi le procedure, accresca l’internazionalizzazione, favorisca la collaborazione tra atenei, centri di ricerca e imprese, superando l’attuale natura spesso troppo generalista di corsi di dottorato incardinati in un’unica sede.
Questi Philosophiae doctores, tanto apprezzati all’estero, sarebbero persi sia per le Università, relegate a super licei, sia per le grandi infrastrutture iperspecialistiche, che potrebbero trovarsi ricche di strumenti ma povere di uno straordinario capitale di idee.
A meno che non sia esattamente questo lo scopo: sottrarre risorse alla ricerca di base, quella invocata dal “Piano Amaldi”, con l’obiettivo di favorire una ricerca “alla carta”, ben lontana non solo dal piano auspicato da chi l’eccellenza l’ha sempre perseguita, ma anche dallo spirito dell’articolo 33 della Carta a cui dovremmo sempre guardare.
Non è forse un caso se l’Università è stato il comparto pubblico finanziariamente più penalizzato dopo la crisi del 2008, mentre alcune fondazioni private, finanziate con denaro pubblico, potevano permettersi il lusso di accantonare ingenti somme di denaro, dimostrando anche incapacità a spendere quanto ricevuto. Le Università hanno quindi viaggiato a lungo con il freno a mano tirato, e nonostante questo hanno dimostrato di saper fare ricerca e formazione di qualità.
Ricerca ed educazione delle nuove generazioni non sono due aspetti dicotomici, ma rappresentano le due dimensioni inseparabili di un unico spazio entro il quale produrre e trasmettere conoscenza e cultura. A oggi, quindi, il problema non è concentrare le risorse su poche realtà, ma supportare l’intero sistema universitario, il più potente motore della forza propulsiva del paese, di tutto il paese, l’unico capace di far decollare una crescita culturale, sociale ed economica sostenibile, inclusiva e, soprattutto, diffusa.