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Riprendiamo con coraggio il riformismo di Bruno Trentin

Luigi Berlinguer

12/07/2012
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l'Unità

HO L’IMPRESSIONE, AMARA, CHE MENTRE TUTTI PARLANO DI CRESCITA, SIA POCO CHIARO IN CHE COSA ESSA CONSISTA. L’Italia non riesce a crescere da circa un decennio. La crescita è soprattutto un fatto strutturale, che necessita oggi di misure urgentissime, visto che la gente soffre, sta malissimo; ma ha bisogno, contemporaneamente, di misure strategiche. Essa non può essere un’opzione miracolistica. Non ci si salverà con misure statalistico-assistenzialistiche, perché nella società della conoscenza l’unica strada da imboccare risolutamente è lo smart growth, la crescita qualificata. Abolire privilegi e rendite corporative è certo la precondizione per lo sviluppo, che si può cogliere però solo puntando sull’«Europa dell’innovazione». È la conoscenza il valore aggiunto dell’impresa, degli investimenti e della rimodulazione del lavoro. Purtroppo soltanto una minoranza del mondo produttivo è sintonizzata in Italia su questa lunghezza d’onda. Del resto anche nello stesso campo socialista, salvo eccezioni, non si riesce a fare della società della conoscenza l’architrave della propria azione, politica, culturale e sindacale. Eppure ci sono stati nella nostra storia momenti in cui il sindacato ha avuto chiara questa scelta di campo. Senza arretrare ai primi anni 70, basti pensare agli accordi del 1993. Teorico e insieme artefice di quella strategia fu Bruno Trentin (tra qualche settimana ricorrerà il quinto anniversario dalla scomparsa). Oggi quelle scelte andrebbero riprese con coraggio, come una priorità assoluta, non un aspetto del problema. Si pensi al confronto aspro tra Fiat e Fiom, oppure all’attuale dibattito sulla riforma del mercato del lavoro: da un lato c’è il riproporsi dell’ossessione liberista della flessibilità in uscita e l’illusione (strumentale) che essa possa generare nuovo lavoro; dall’altro c’è chi vorrebbe affidare quasi solo a norme rigide la difesa dei diritti e lo sviluppo dell’occupazione. Pregnante il pensiero di Trentin: nessuna pregiudiziale anti-flessibilità. Ma «c’è una flessibilità ideologica e una flessibilità reale». Egli rifiutava la strumentalità della prima, ma raccomandava (coraggiosamente) l’apertura riformistica alla seconda. Una organizzazione flessibile del lavoro rispettosa dei diritti è condizione di produttività, competizione, sviluppo; purchè i costi (formazione, reinserimento, mercato del lavoro) vengano coperti adeguatamente da una fiscalità equa e da un impegno delle imprese. Ciò è possibile soltanto attraverso l’intreccio tra lavoro e sapere. Qui siamo deboli, in Italia. Ricordiamoci che la popolazione attiva (pure se in aumento) non va oltre il 50%, mentre nel Nord Europa raggiunge anche il 75% della collettività. Perché non si affronta qui fino in fondo la crisi della disoccupazione strutturale dei lavoratori “over 45 anni”? Nel nostro Paese i 55enni occupati sono il 35%, contro il 70% dei Paesi scandinavi. Perché facciamo finta di ignorare che la Svezia ha sviluppato un’attività di formazione permanente (degli adulti) che ha fatto raggiungere il diploma di scuola media superiore ad una percentuale altissima di cittadini? Il rapporto sistemico tra conoscenza e lavoro si affronta su due piani e produce due risultati: quello capace di influenzare significativamente la produttività e, insieme, quello di contribuire a cambiare l’impianto educativo del Paese. In Germania è stata ridotta sensibilmente la disoccupazione giovanile anche promuovendo una radicale riforma dell’apprendistato, contaminando lavoro e sapere, fra loro, esperienza produttiva e studio-insegnamento non (solo) cattedratico. Altrettanto è successo in alcuni Paesi dell’Europa per i cittadini adulti, dove si è provveduto alla riqualificazione costante del cittadino-lavoratore, favorendo la ricostruzione della cultura di base, garantendo allo stesso tempo aggiornamento e ristrutturazione professionali e aggiornamento del profilo intellettuale della cittadinanza, agendo sul fronte del sapere e del saper fare. Introducendo sia nello studio, sul versante educativo, quanto su quello del lavoro esecutivo, la cultura del risultato, la responsabilizzazione. Qui occorre operare nell’ambito della contrattazione sindacale, con l’inserimento organico del concetto di "salario in natura", la professionalizzazione, o l’"assicurazione della mobilità professionale verso l’alto", come raccomandava Bruno Trentin. È in questo quadro che si rinnova la scuola e, con la contrattazione, si favoriscono la partecipazione attiva e responsabile dei lavoratori all’organizzazione aziendale. Socialismo, solidarismo cattolico, movimento operaio, i democratici devono fare i conti con questa sfida. Così si rinnova la base teorica della sinistra. Così si può superare l’infausta stagione delle due sinistre, come hanno ben scritto Tronti, Prospero, Vita e Ranieri su queste pagine. Non basta, però, l’attenzione al “sapere”. È decisivo “quale sapere, e come”. Va cambiato il vecchio modello educativo, di pura trasmissione delle nozioni. L’apprendimento diviene protagonismo studentesco nell’accesso al sapere, come il lavoro diviene protagonismo nella produzione del benessere collettivo. E la libertà, in una società aperta, diventa valore costitutivo della persona umana, acquista pregnanza e forza se si la arricchisce di conoscenza, è vera libertà se un posto di lavoro non diviene un’elemosina. È la piena occupazione che consente la realizzazione di se stessi nel lavoro, che libera dal bisogno di lavorare. Sapere e lavoro sono la sfida di oggi, la colonna portante del benessere e della vera libertà.


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