Ripartire dagli insegnanti: la ricetta per la scuola del Sud
I dati Invalsi hanno certificato che gli studenti del Mezzogiorno ottengono risultati molto al di sotto della media nazionale in tutte le prove e per ogni grado di scuola. Centrale è la qualità dell’insegnamento. Ed è lì che bisognerebbe intervenire.
di Daniele Checchi e Maria De Paola
Uno sguardo ai dati Invalsi
I dati discussi dal rapporto Invalsi 2019 ripropongono uno dei problemi più importanti che il nostro paese si trova a dover affrontare: un divario territoriale allarmante nelle competenze dei giovani che frequentano le nostre scuole. Gli studenti che risiedono nelle regioni del Mezzogiorno ottengono risultati molto al di sotto della media nazionale in tutte le prove e per ogni grado del processo formativo. I risultati scolastici dipendono da molti fattori, ma un ruolo cruciale è certamente svolto dalla qualità dell’insegnamento ed è lì che bisognerebbe intervenire.
Consideriamo innanzitutto i risultati ai test di italiano (tabella 1). Mentre in seconda primaria (ex seconda elementare) nessuna regione si discosta in maniera significativa dalla media nazionale, già a partire dalla quinta si incominciano a delineare differenze territoriali: se da una parte Valle d’Aosta, Umbria e Marche ottengono un punteggio significativamente superiore alla media, dall’altra, Calabria, Sicilia e Campania registrano punteggi significativamente più bassi. Le differenze di soli pochi punti in quinta tendono ad aggravarsi man mano che si procede ai gradi superiori. In terza secondaria di I grado (ex terza media) la Calabria, ultima in classifica, presenta un gap di 13 punti rispetto alla media nazionale, che diventano 15 in seconda secondaria di II grado (ex seconda superiore) e 18 punti alla maturità. Non molto diversa la situazione per le altre regioni meridionali, in alcuni casi la differenza emerge più tardi, ma già dalla terza secondaria di I grado (ex terza media) tutte le regioni del Mezzogiorno presentano risultati significativamente peggiori rispetto alla media nazionale.
Lo stesso dato sconfortante si rileva quando si esaminano i risultati ai test di matematica. In questo caso il divario tende a essere ancora più forte. In regioni come Calabria, Sicilia e Sardegna, è di 10-14 punti già dalla quinta primaria per arrivare anche a più di 20 alla fine della scuola superiore. Inutile dire che la situazione non migliora se si considerano le competenze nella lingua inglese (tabella 1).
Tabella 1 – Risultati prove di italiano, matematica e inglese, punteggi medi
Fonte: Rapporto Invalsi, 2019
Nota: per scuola primaria si intende la ex scuola elementare, la secondaria di I grado indica le ex scuole medie inferiori e quella di II grado le ex scuole superiori.
Il gap e il suo ampliarsi man mano che si arriva ai gradi superiori del processo formativo può essere spiegato dal divario economico tra Nord-Sud? Certamente partire da condizioni socio-economiche disagiate non aiuta nella scuola come, più in generale, nella vita. Ma è solo questo? Non si direbbe: al Sud fanno male anche gli studenti che provengono da famiglie “agiate”. Sembrerebbe piuttosto un problema di malfunzionamento delle scuole, che non è facilmente attribuibile a una carenza di risorse finanziarie, data la notevole disponibilità di fondi europei di cui il Sud ha goduto negli ultimi anni.
Colpisce altresì l’assenza di iniziativa da parte ministeriale. Alla presentazione dei risultati Invalsi il ministro Bussetti si è impegnato a “(…) promuovere un percorso di progettualità partecipata con gli Uffici scolastici regionali (Uussrr) e enti territoriali interni all’ex Obiettivo convergenza, finalizzata alla riduzione dei divari territoriali (…). I territori sono segnati da profonde differenze in termini di spazi, servizi, attività culturali e produttive, condizioni occupazionali, culturali, sociali (…) aspetti ineludibili che condizionano fortemente gli stessi risultati. Noi dobbiamo ripartire da qui: da un dialogo con le famiglie e con il territorio”. Ci si sarebbe aspettati una diagnosi più puntuale, per esempio partendo da una analisi dell’eterogeneità dei risultati tra scuole del Sud (che per altro è più elevata che nelle regioni settentrionali) volta a capire perché alcune riescono comunque a conseguire risultati in linea con la media nazionale. Qual è la ricetta del successo?
Il ruolo dei docenti
Una parte importante della spiegazione potrebbe risiedere nel basso livello di coinvolgimento e motivazione degli insegnanti. Ma perché i docenti che lavorano nelle scuole del Sud fanno peggio dei loro colleghi (molti dei quali sono meridionali) che operano nelle scuole di altre regioni italiane? L’erraticità delle modalità di reclutamento degli insegnanti utilizzate nell’ultimo decennio (si pensi alla sanatoria che ha immesso in ruolo i diplomati magistrali) non ha certamente contribuito alla selezione dei candidati migliori in termini di competenze o maggiormente vocati alla trasmissione della conoscenza. Al Sud a ciò si aggiunge un contesto sociale poco attento al valore dell’istruzione.
Indubbiamente esiste una parte di insegnanti efficaci, competenti e motivati. Il problema (di natura squisitamente politica) è come indurre questa parte a rivelarsi e come trasferire a essa potere decisionale sull’organizzazione della scuola. Attualmente molti docenti (anche tra quelli meno competenti) sono impegnati a proporre e poi a realizzare progetti di utilità molto incerta. Perché invece non concentrare le energie su quello che certamente serve (rafforzare le competenze di base) e offrire la possibilità a gruppi di insegnanti (per esempio quelli di una sezione) di candidarsi a proporre pratiche didattiche che siano efficaci nell’accrescere le competenze degli studenti e di procedere poi con sistemi rigorosi a accertarne l’efficacia? Si potrebbero individuare così docenti di comprovata efficacia ai quali andrebbe riconosciuto formalmente un ruolo di preminenza (eventualmente associato a un bonus retributivo più adeguato della attuale “valorizzazione del merito”), coinvolgendoli anche nella formazione dei propri colleghi e aprendo per loro una corsia preferenziale per la posizione dirigenziale nelle scuole.
Tutto questo è impossibile da realizzare con l’attuale legislazione sul pubblico impiego e nel contesto delle relazioni sindacali di oggi. Ma l’emergenza evidenziata dai dati sugli esiti scolastici richiede l’adozione di strumenti emergenziali di contrasto, che facciano leva su risorse esistenti, rigorosamente selezionate. Temiamo invece i progetti speciali a pioggia – “(…) un progetto di intervento coordinato dal Miur (…) finalizzato al miglioramento dei risultati” ha promesso il ministro – per la loro limitata capacità di discriminazione e di valorizzazione delle buone pratiche non risulteranno minimamente incisivi nel ridurre i divari.
DANIELE CHECCHIInsegna economia del lavoro all'Università Statale di Milano. Ha collaborato come consulente economico del sindacato nel periodo 1978-88, e successivamente ha partecipato a diverse ricerche sulla contrattazione decentrata. Si occupa di comportamenti sindacali e di economia dell'istruzione. È stato membro della Commissione Governativa per il riordino dei cicli scolastici (luglio 2000). Redattore de lavoce.info.
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MARIA DE PAOLAHa conseguito un Dottorato di Ricerca in Economia presso l’Università la Sapienza di Roma. E’ professore Ordinario di Politica Economica presso il Dipartimento di Economia, Statistica e Finanza dell’Università della Calabria. Si occupa prevalentemente di Economia del lavoro e dell’istruzione, Discriminazione di genere, Political Economy e valutazione di politiche pubbliche.
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