Riformista: VISALBERGHI. RICORDO DI FERRAROTTI
«Aldo emancipò la pedagogia e dette sostanza all'idea di pace»
DI LUCAMASTRANTONIO
La «scuola aperta», che in Italia non ha mai aperto del tutto i battenti, dove docenti e alunni hanno un rapporto dialettico, oggi è chiusa per lutto. Ieri è morto il suo fondatore, Aldo Visalberghi, grande pedagogista italiano, che ha attinto creativamente alla scuola americana di John Dewey, producendo decine di libri, tra cui i fondamentali Esperienza e valutazione, Scuola aperta, Insegnare e apprendere e Scuola e cultura di pace. Nato a Trieste il 17 agosto del 1917, esponente di spicco dell'antifascismo, partigiano in Piemonte, poi dirigente del Partito d'azione, è stato allievo del filosofo liberal-socialista Guido Calogero, assieme al compagno di studi alla Normale di Pisa Carlo Azeglio Ciampi. Durante la sua copiosa attività scientifica e di ricerca sul campo, ha insegnato alle università di Torino, Milano e Roma. La lezione di Visalberghi è un utile polo dialettico per certi astratti furori pacifisti, anti-americanismi epidermici e l'ormai egemone capitalismo culturale.
Lo sostiene Franco Ferrarotti, a colloquio con il Riformista, ne parla come di un «un amico innanzitutto e un compagno di lavoro intellettuale. Abbiamo condiviso parabole esistenziali, ideali e universitarie. Seppure lui fosse di qualche anno più grande, abbiamo una biografia geografica simile, piemontese, anche se lui era partigiano e io un giovane gappista. Di lui, personalmente, ricordo la grande affabilità e le nostre convergenze ideali di stampo liberal-socialista».
Ma la vera militanza comune, per Ferrarotti, è stata quella culturale. Come primo cattedratico di Sociologia, Ferrarotti ricorda che bisognava portare «la sociologia e la pedagogia fuori dalla trappola del socialismo ideologico, ispirandosi a principi multidisciplinari. Anche perché c'era da riscattare la grande colpa dei totalitarismi, dove la sociologia era considerata corrosiva e la pedagogia nient'altro che propaganda. La sociologia è diventata mediazione culturale, psicologica e antropologica. E così la pedagogia “praticata”, non solo “teorizzata”, da Visalberghi. Il suo grande merito è stata l'introduzione critica e la diffusione della scuola pedagogica americana, democratica e aperta, di John Dewey. Tradusse e introdusse la Logica, teoria dell'indagine, per Einaudi. Era l'uscita dal pedagogismo di marca fascistoide, che in Italia significava manipolazione psicologica della gioventù, insomma libro e moschetto, mentre in Germania era educazione alla morte. Visalberghi ci ha liberato da questo ciarpame dittatoriale senza essere mai dottrinario. Curioso, peraltro, che a Roma fu chiamato da Ugo Spirito, che era su posizioni diverse, come Luigi Volpicelli». Sul piano istituzionale, Ferrarotti e Visalberghi si trovarono assieme quando al servizio sociale bisognava dare uno statuto scientifico riconosciuto. Far confluire il Cepas, fondato da Guido e Maria Calogero sull'Aventino, alla Facoltà di Lettere e Filosofia.
Su entrambi, ricorda Ferrarotti, è stata spesso attaccata l'etichetta di “americani”. «Sul piano culturale bisognava farsi liberare dalla parte buona dell'America. Sulla pedagogia non c'era il veto crociano, come invece sulla sociologia, ma Visalberghi dovette comunque vedersela con l'accusa di essere un importatore di mode culturali americane. Ma Dewey non era una moda, dietro c'era il pensiero del pragmatismo vivo di Charles Pierce, dove il pensiero, prima che teoretico e astratto, è esperienza vissuta. Soprattutto nel senso dell'esperienza diretta, della ricerca sul campo, abbiamo in Visalberghi non un semplice traghettatore di idee, ma un nuovo interprete. Lui ha “acclimatato” le idee di Dewey in Italia».
Ferrarotti legge in questi ultimi anni «il persistere di un'idea preconcetta dell'America, tipica di provincialismi culturali che purtroppo stanno tornando come una infezione a-specifica». Anche sul tema della pace, cui Visalberghi ha dedicato gran parte della sua attività, Ferrarotti fa alcune precisazioni: «La sua posizione, in tema di pace, era simile a quella dei Aldo Capitini. Non c'è dubbio, sebbene con qualche differenza. La pace, comunque, va intesa non tanto come strumento politico, che si incarna magari in una manifestazione o in una marcia. Va inserita in un ri-orientamento della socializzazione e della costituzione della personalità. La conquista di un mondo pacifico - continua Ferrarotti - va intesa in termini kantiani, di una pace eterna. Un reale senso di pace trova troppo spesso la sua caricatura nel pacifismo. La pace non è un fatto politico strumentale, interparlamentare. Neanche da Nazioni unite. La pace, come era prospettava da Visalberghi o altri pacifisti - penso a Paul Goodman e ad altri, per esempio gli esponenti della tradizione anarchica che meriterebbe più rispetto - è il risultato inevitabile di una diversa concezione della formazione della personalità».
Il prezzo per un cambiamento del genere è radicale e strutturale, sostiene Ferrarotti. «Noi siamo ancora legati ai grandi miti dell'affermazione personale, del mercato onnipresente. Nella formazione delle personalità vale ancora il modello della personalità autoritaria di Adorno, si creano personaggi che sono servili verso i potenti e vessatori con i deboli. E invece bisogna rinunciare anche alla cultura intesa come capitale privato. Bisogna adottare il concetto di identità dialogica, inclusiva e non esclusiva. Ricordo una chiacchierata proprio con Visalberghi, a Torino: bisogna arrivare al concetto di verità come un patrimonio intersoggettivo e non una conquista, neanche interiore. Altrimenti è qualcosa di mistico o, peggio, un monopolio di una forza sulle altre. La pedagogia di domani non potrà mai accettare l'extra ecclesia nulla salus. Di nessuna chiesa. Nessun dogma».