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Riformista: Solo in Italia i docenti stranieri invitati sono costretti a pagare le tasse per le spese

APPELLO A VISCO DI ALESSANDRO FIGÀ TALAMANCA

26/04/2007
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Il Riformista

L’università italiana, dicono i rettori, è in crisi perché ha subito gravi decurtazioni del finanziamento. L’università italiana, predica la Confindustria, non risponde alle esigenze e alle sollecitazioni del “mercato”. L’università italiana, lamentano molti professori, promuove gli asini (allievi del mio rivale) e non chi merita (i miei allievi). Forse sono questi i maggiori problemi dell’università e solo di questi dovremmo occuparci. Eppure la vita quotidiana del professore italiano che tenta di sopravvivere all’interno di una comunità internazionale di studiosi, è spesso afflitta e condizionata da problemi apparentemente minori, che però contribuiscono in modo assai rilevante a mettere in cattiva luce la scienza e la cultura italiana e l’Italia intera.
Uno di questi problemi è quello della tassazione dei docenti stranieri invitati in Italia per conferenze, seminari o convegni. Partiamo, ad esempio, dal caso pratico di uno studioso straniero invitato a presentare i suoi risultati a un pubblico di giovani ricercatori o studenti del dottorato italiano, o a partecipare a un convegno dove più studiosi sono invitati a esporre e discutere assieme i loro risultati. La prassi in vigore in ambito internazionale è che allo studioso invitato si offre un modestissimo onorario per le conferenze da lui svolte e il rimborso delle spese vive documentate (viaggio, albergo, ristorante).
È naturale che l’onorario sia assoggettato a una imposizione fiscale. In Italia secondo la normativa in vigore per i residenti all’estero, l’università dovrebbe trattenere e versare al fisco il 30% del compenso. Sembrerebbe però anche logico che l’imposta del 30% non si estenda alle spese per il biglietto aereo, l’albergo e il ristorante. Ma in Italia non è così. L’Agenzia delle Entrate, rispondendo a un quesito posto da un ente di ricerca, ha decretato che anche le spese vive degli studiosi invitati siano tassate. Ad esempio, lo studioso straniero invitato in Italia a tenere una conferenza per la quale egli riceve, un compenso di cento euro, e un rimborso delle spese vive documentate di 900 euro (per il viaggio e soggiorno) deve lasciare 300 euro al fisco italiano. Una prassi di questo tipo è assolutamente unica sul piano internazionale, e non è facile da spiegare a uno straniero.
Ci sarebbe tuttavia il modo di evitare l’iniquo trattamento che il fisco italiano vuole imporre agli studiosi stranieri. Basterebbe applicare le convenzioni internazionali sottoscritte dai governi italiani che stabiliscono che i professori visitatori stranieri possono optare per il pagamento delle tasse nel proprio paese, dove naturalmente nessuno farà pagare loro le tasse sulle spese vive sostenute e documentate. A questo punto interviene però la burocrazia di quasi tutte (con poche meritorie eccezioni) le sedi universitarie italiane. Invocando possibili severi controlli da parte di una inflessibile Agenzia delle Entrate, il burocrate universitario di turno si chiede: come facciamo a sapere che il professor John Smith, dell’Università di Princeton, cittadino americano, come da passaporto, sia veramente residente, come egli dice, negli Stati Uniti, e non sia invece residente della Sierra Leone, uno dei pochi paesi con i quali non abbiamo una convenzione internazionale che riguarda le tasse dei professori visitatori? Possiamo credergli? Certamente no, nonostante la notorietà dello studioso. Vale il principio, tutto italiano, che ciò che non è certificato dall’autorità “competente” non esiste. Il professor John Smith si deve procurare un certificato di residenza “fiscale”, deve poi fare la fila al consolato italiano di New York e pagare, perché questo certificato sia debitamente tradotto e autenticato, solo allora al suo arrivo in Italia potremo applicare la Convenzione.
Possiamo immaginare con quale animo il docente italiano che lo invita spiegherà al suo collega americano i passi che deve fare per ottenere quello che a norma del più elementare diritto internazionale è suo diritto: l’applicazione di una convenzione tra il suo paese e l’Italia. Un freddo e cortese rifiuto dell’invito sarà nella maggior parte dei casi inevitabile. Sarà un problema minore quello della tassazione dei visitatori, ma è un ottimo esempio di come la burocrazia italiana si industria a rendere difficile il lavoro dei docenti e ricercatori italiani, e a screditare la scienza e la cultura italiana nel mondo internazionale.
Vorrei concludere con un appello all’onorevole Vincenzo Visco, che, a tutti gli effetti, è il ministro delle Finanze. Anche lui è un professore. Certamente può mettersi nei panni di chi cerca di mantenere ragionevoli contatti con la scienza internazionale, invitando occasionalmente studiosi stranieri per conferenze e seminari. È possibile sperare in un suo intervento? Basterebbe dopotutto chiarire che l’Agenzia delle Entrate non perseguiterà chi, in buona fede, accetta la dichiarazione di un docente straniero in merito alla sua residenza fiscale, per applicare una convenzione internazionale. Basterà chiarire che i compensi per conferenze e seminari, non comprendono, ai fini delle imposte, le spese vive documentate. Basterà insomma applicare il buon senso anziché la perversione burocratica. Possiamo sperarci?


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