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Riformista: Se i dottorandi italiani negli Usa hanno la sindrome di Troisi

Università, la fuga di cervelli non è un buon sintomo, ma neanche l'attendismo

14/04/2007
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Il Riformista

UNIVERSITÀ. LA «FUGA DI CERVELLI» NON È UN BUON SINTOMO, MA NEANCHE L’ATTENDISMO DI NADIA URBINATI

C’è paura di «emigrare», si vuole solo «viaggiare». I ricercatori del nostro paese temono lo sradicamento e soprattutto il rischio di bruciarsi i ponti per un eventuale ritorno. Perché nel nostro sistema accademico, statico, l’immobilità è considerata un valore, la mobilità no

Washington. Nella lettera d'invito all'incontro con i docenti italiani che insegnano nelle università americane, il primo nel suo genere mi sembra, Aldo Schiavone mi chiedeva di «riflettere sulla mia vicenda intellettuale di studiosa formatasi in Italia, e poi inseritasi in un ambiente culturale e accademico per tanti aspetti così diverso» da quello italiano. Non so se la mia esperienza sia di qualche interesse - come ogni esperienza è unica e difficilmente generalizzabile; la mia in particolare, così inconsueta e eccezionale, perché la mia decisione di partire per gli Stati Uniti vent'anni fa non fu una decisione di emigrazione - mi è difficile pensare a come si possa razionalmente decidere di emigrare. Stavo completando il dottorato all'Istituto Universitario Europeo e l'America era per me un paese lontanissimo (oggetto molto più spesso di critica che non luogo ideale). Comunque, senza voler emigrare sono diventata un'emigrata. Senza nessuna affiliazione universitaria e con una scarsissima familiarità con la lingua mi sono trovata in un paese che non mi ha mai chiuso le porte, almeno non non prima di avermi dato l'opportunità di provare me stessa. Non ci sono al mondo paragoni possibili con nessun paese; non mi interessa qui cercarne la ragione: se per l'enorme ricchezza di risorse, la vastità del territorio o l'etica della responsabilità individuale. Mi interessa precisare che non è a questa situazione ideale che l'Italia può concretamente ispirarsi, perché inimitabile e ineguagliabile.
Una riflessione più utile che a partire dalla mia esperienza vorrei proporre è invece quella relativa all'emigrazione e agli effetti perversi che il timore dell'emigrazione può creare, e crea, nelle nuove generazioni, ovvero in chi prende oggi la decisione di partire. Questo timore, spesso fortissimo, mette in evidenza un vizio o un ostacolo nel sistema accademico e della ricerca italiano che è molto marcato anche se può essere corretto o rimosso; anzi, sarebbe nell'interesse del sistema che venisse rimosso.
Quando sono arrivata negli stati uniti, nel 1987, la presenza di accademici nelle discipline non scientifiche e non legate direttamente alla lingua e storia italiane, era decisamente minoritaria. Ancora oggi penso che si contino sulle dita di una mano i docenti con formazione italiana che insegnano teoria politica negli Stati Uniti. Ma nel corso di questi anni, alcune cose sono cambiate. Per esempio, è cominciata una nuova forma di presenza italiana: quella di studenti italiani che presentano domanda per essere ammessi a corsi di dottorato nelle università statunitensi. Personalmente ho sempre cercato di sensibilizzare i colleghi italiani affinché indirizzino bravi studenti verso le università americane, e in particolare Columbia. E devo dire con soddisfazione che nel dipartimento di Scienze Politiche dove lavoro, contiamo oggi tre dottorandi italiani. Si tratta per me di un fatto molto importante; del mio modo di dare un contributo al mio paese, o meglio a quelle persone del mio paese che ritengo siano meritevoli di studiare a Columbia.
Il mio non è un gesto di parzialità; molto più semplicemente sono in grado di leggere e valutare i certificati di attestazione dei voti rilasciati dalle nostre università e questo fa la differenza, perché può tenere aperto il fascicolo di un bravo candidato che in altre circostanze verrebbe chiuso perché difficile da decifrare. Il mio aiuto è quindi molto tecnico.
Comunque sia, l'ammissione di studenti italiani al dottorato mi ha fatto conoscere una realtà che è inquietante: il timore dell'emigrazione ha un fortissimo potere deterrente sui giovani i quali preferiscono spesso sacrificare il loro futuro pur di non dover emigrare. Non è difficile intuire il senso di sradicamento e esclusione che la condizione dell'emigrazione provoca - ricordo spesso la famosa battuta di Massimo Troisi, un napoletano che “viaggiava” ma non voleva essere un emigrato; non è difficile capire immediatamente che questi giovani sono messi di fronte a un problema esistenziale e psicologico difficile, un problema che non dovrebbero avere. Gli studenti ammessi al dottorato a Columbia provengono da tutti i paesi del mondo e la notizia dell'ammissione è per loro una fonte di reale soddisfazione e gioia. Ma gli studenti italiani sono insieme felici e preoccupati perché temono di non poter più tornare in Italia. Sanno ancora prima di prendere la decisione di partire per gli Stati Uniti che il ritorno potrà per loro essere un problema, per l'ovvia e perenne scarsità di risorse e quindi di opportunità di reclutamento nell'accademia italiana; ma anche, anzi soprattutto, perché è noto che nell'accademia italiana vige la pessima regola di considerare l'immobilità come un bene da premiare e la mobilità come un male; se poi si tratta di mobilità in un'università americana, allora si tratta di un “lusso” da punire. Chi va a studiare all'estero, i nostri ragazzi lo sanno e lo temono, rischia di dovere diventare un emigrato contro la propria volontà, come se debba essere punito con l'esclusione quello che viene considerato un privilegio che chi resta in Italia non si è potuto concedere.
Questa è una condizione riprovevole che, mentre produce sofferenza in chi la subisce, non fa del bene al paese. Se l'India o la Cina sono oggi paesi di tanto successo economico è in parte anche perché non hanno emigrazione intellettuale: i loro studenti vengono a perfezionarsi nelle università americane o occidentali ma per tornare nei loro paesi, non per emigrare. La risorsa della cultura non è in quei paesi solo un bene personale di chi la possiede, ma è anche un bene generale. Il ritorno dei ragazzi che vengono a studiare negli Stati Uniti non deve poter essere un problema - è nell'interesse del sistema Italia, oltre che nel loro.

*Docente di Teoria politica alla Columbia University


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