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Riformista: Nel mucchio eterogeneo della protesta si perde di vista il nodo dell'efficienza

IL DECLINO DELL’UNIVERSITÀ DI ALBERTO ABRUZZESE

07/11/2006
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Il Riformista

Riprendo alcuni ultimi interventi che questo giornale - tra i pochi ad avere offerto una finestra costantemente aperta sulla crisi del sistema accademico nazionale - ha dedicato all'intreccio perverso tra finanziaria e tracollo delle istituzioni universitarie. Intendo: Ragone, Modica, Piga, Figà Talamanca. Stili diversi dal mio, sostanzialmente costruttivi. Tutti da discutere, almeno per me che penso non si possa costruire senza prima avere distrutto i detriti e i vecchi edifici sparsi sul terreno su cui vorremmo edificare. Ma certamente interventi da apprezzare almeno nel mostrare viva attenzione sul problema, invece di tacere (strabiliante: molti miei colleghi di cui stimo il lavoro sotto ogni profilo hanno al contrario mostrato di non essere assolutamente interessati a fare rete; il sito www.nimmagazine.it e altri che a esempio fanno riferimento a Boccia Artieri (Urbino) e a Stefano Cristante (Lecce), si stanno impegnando molto sull'università, ma godono di attenzione solo da parte di qualche docente abbastanza giovane per avere conservato qualche slancio, e ancor meno di precari, già troppo avanti negli anni per non essere disillusi).
Della discussione tra Piga e Figà Talamanca apprezzo l'idea che avanza il primo, polemizzando con l'idea di una università che non potrebbe uscire dai suoi binari storico-socio-istituzionali. Piga coglie uno dei nodi fondamentali: se non si distrugge radicalmente il modello sino a oggi perseguito nei concorsi, non avremo mai una base di cervelli e capacità in grado di trasformare il ruolo dell'università italiana. Cosa significa il fatto che sino a oggi non si sia potuto realizzare questo auspicato ingresso in una meritocrazia svincolata il più possibile dai potentati accademici? Cosa significa il fatto che, quando un presidente degnissimo come Napolitano accetta di parlare in una aula della Bocconi, la crucialità di questa svolta istituzionale non occupa lo stesso spazio e la stessa veemenza dedicata alla necessità di estirpare la camorra napoletana?
Ragone allude al rinnovamento dal basso registrabile in qualche piccola isola sperduta nel naufragio della nostra università. Vero: ma, senza la distruzione dei meccanismi selettivi attuali e senza risorse in grado di garantire un lavoro qualificato e continuativo, questi movimenti dal basso sono destinati a essere stroncati. Vero anche - è sempre Ragone a dirlo - che sarà la nuova mentalità di giovani adusi al computer e alle reti a scavalcare la morta gora accademica. Ma senza una «università estensiva», divenuta pessima, decisa a farsi «intensiva», dunque davvero bisognosa anche questa di «strutture organizzative e fisiche» totalmente ribaltate, saranno le università inglesi e non quelle italiane, neppure quelle tra loro d'eccellenza, a offrire formazione alle nuove classi dirigenti. Del rapporto tra la crisi delle élite italiane e università ha recentemente parlato con il suo consueto acume nazionale Ruggero Romano nelle lettere al Corriere.
Quello che solitamente viene oscurato nei dibattiti su formazione e ricerca sta proprio nel fatto di ritenerlo un problema di sopravvivenza delle università e di qualificazione del lavoro professionale ma non di rinascita di élite in grado di governare i mutamenti del presente. E il problema non parte dalle «lauree facili», come sembra credere Mario Pirani, che evidentemente non capisce che il «facile» e il «difficile» non hanno più senso quando dipendano ancora dai contenuti e valori su cui tali criteri di valutazione si sono formati. Così come a poco potrebbero servire, partendo da analoghe basi culturali, gli eventuali meccanismi di verifica esterna che mi pare anche Ragone si auguri, pur partendo da una giusta esigenza, dato il discredito dei meccanismi di autogestione e conseguente autovalutazione di gran parte dei sistemi accademici.
Quando ho usato il riferimento a Fondazione Due, invenzione di una sorta di società segreta parallela a Fondazione Uno, forse avrei fatto meglio a richiamare Musil, la sua Azione Parallela, invece di Asimov, tanto per sottolineare che tale riferimento era solo uno spunto, non un calco di un romanzo fantascientifico. Non era per dire che abbiamo bisogno di un lavoro di ricerca e sperimentazione chiuso in sé, ma di un qualcosa di totalmente diverso da una semplice ri-costruzione delle “macchine” di cui siamo costretti a servirci. Con pezzi di riforma fintamente innovativi o malamente inseriti, questa nostra vecchia macchina non può riprendere a funzionare. Bisogna pensare - e senza creare, fare e avere mezzi per fare, non si pensa - alcuni prototipi di nuove macchine. Che dicono le imprese su tutto questo? Pochissimo e male, conservando e anzi propagandando una idea di università che li liberi dalla loro irresponsabilità civile in merito alla ricerca e formazione.
Modica richiama l'impegno di Walter Tocci e in effetti questi è stato il primo a lanciare l'allarme su una finanziaria che si è scordata proprio uno dei primi punti della campagna elettorale del centrosinistra. Tuttavia da un responsabile della politica universitaria dei Ds mi aspetto una più efficace mobilitazione del suo «piccolo popolo» di docenti comodamente annidati in apparati universitari che evidentemente danno loro quello che a loro giudizio «basta per vivere». Che proprio nella finanziaria la questione universitaria abbia ora e subito il suo cuore appare troppo evidente: senza soldi tutto ciò di cui parlano i costruttori dei destini della formazione si fa impossibile. Anche quando sono nel giusto, sbagliano i conti.
A tal proposito un'ultima questione. Sono d'accordo con quanti hanno accolto con diffidenza le lamentele sollevatesi sulla contrazione degli stipendi attuali e di quelli eventualmente futuri. Nel mucchio dei protestatari si confondono stipendi alti (al di sotto del giusto, ma relativamente alti e riscossi da una folta popolazione di anziani, spesso improduttiva o obsoleta), stipendi infimi (infinitamente al di sotto del concepibile, buona ragione per essere improduttivi per costrizione e disimpegno), stipendi a singhiozzo che farebbero ridere qualsiasi altro lavoro minimamente apprezzato sul mercato, infine una cornucopia di false promesse in cambio di prestazioni che spesso somigliano allo sfruttamento dei bambini nella prima fase della rivoluzione industriale inglese. Semmai, questo discorso sugli stipendi andrebbe fatto risalire ai processi di sviluppo (cattivo, ma comunque sviluppo) dell'università italiana nei decenni in cui andava delineandosi il sistema Italia. Era allora il momento di far funzionare i governi e i sindacati in modo che non si facessero portatori del corporativismo del personale universitario (questo è oggi un problema drammatico) e dell'ideologismo di sinistra (il micidiale principio della separazione tra scienza e lavoro), ma sostenessero la dignità dell'insegnamento agganciando la crescita degli stipendi alla qualità della ricerca e della formazione, nonché all'efficienza del personale che dovrebbe fornire i servizi necessari a sostenerle.


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