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Riformista: Ministro Mussi, non ascolti le sirene e pensi agli studenti più che ai docenti

università. l’equivoco del consenso di Gustavo Piga

25/10/2006
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Il Riformista

Girano in queste giorni sulle e-mail dei ricercatori e professori universitari svariati appelli al presidente del Consiglio e al ministro per l’Università. Sono sottoscritti al momento da un migliaio di docenti ma forse il numero è destinato a crescere. Essi chiedono al Parlamento un impegno a cancellare l’articolo 64 dal testo definitivo della finanziaria che stabilisce il dimezzamento degli scatti di anzianità dei docenti universitari. Inoltre negli appelli si ricorda «il pericoloso sotto-finanziamento del Fondo di funzionamento ordinario delle università, [che] unito al risparmio forzoso richiesto dal decreto taglia-spese del luglio scorso, potrebbe portare al collasso del sistema universitario e al conseguente e definitivo allontanamento dell’Italia dalla vetta scientifica internazionale, con conseguenze catastrofiche per l’economia e la vita sociale». Sui tagli “forzosi” il presidente della Crui (la Conferenza dei rettori universitari), sulle pagine di questo giornale il 6 ottobre scorso, paventava l’impossibilità di risparmiare (come previsto dal governo) il 20% rispetto al 2006 nelle spese intermedie per, ad esempio, «affitti, elettricità, acqua, telefoni, pulizie, guardiania, convegni, computer, biblioteche, carta, penne… Possiamo bere il 20% in meno d’acqua? Possiamo non pulire il 20% delle aule …. In sostanza il decreto obbliga a tener chiusi dipartimenti, aule e uffici per due mesi». Il presidente parla di tsunami. Il consigliere del ministro, Giovanni Ragone, ieri da queste pagine, anch’egli parla di risorse che «non ci sono mai per l’istruzione superiore».

Diversa la nuance adottata dal ministro Mussi, che fa presente al suo governo che «qui parliamo di 150 milioni di euro su 40 miliardi. Briciole, un risparmio minimo, che però avrebbe un effetto devastante in termini di consenso. Non mi sembra una mossa politicamente intelligente».

Faccio fatica, come docente universitario da diversi anni, a non dare ragione al ministro Mussi quando parla di briciole. Sono tentato di dire che il sistema universitario italiano naviga nell’oro. Roberto Perotti e altri compagni di ventura hanno già fatto vedere con dovizia di dati come, una volta corretto per il numero di dipendenti e per il numero di studenti a tempo pieno in parità di potere d’acquisto. spendiamo di più, molto di più del Regno Unito, isola felice della ricerca europea senza tuttavia replicarne come qualità i risultati né l’attrattività per studenti, cinesi e non. Fa specie che si mobilitino migliaia di colleghi per un minore aumento (non una decurtazione!) degli scatti di anzianità quando raramente molti di loro si sono fatti avanti per dire basta a metodi concorsuali inefficienti, a fondi di ricerca spesso erogati a pioggia e/o con eccessi, a valutazioni dei docenti indipendenti dalla qualità della ricerca e dell’insegnamento. In più, se proprio si deve parlare di equità, nel momento in cui a tutto il Paese si chiede uno sforzo, non si vede perché la classe universitaria non debba contribuire ad esso.

Ma non è solo una questione di stipendi. In un volume del Mulino curato da Giuseppe Catalano uscito nel 2004, sono forniti dati sulle spese delle diverse università per acquisti di beni e servizi. Dati unici e strabilianti. Che dimostrano l’enorme variabilità delle spese (opportunamente normalizzate per numero di studenti o impiegati) tra i diversi atenei. Un solo esempio. Spesa per utenze: da un minimo di 285 a un massimo di 5.100 euro, un rapporto da 1 a 18! Pochi anni fa la Consip, la stazione appaltante del ministero dell’Economia e delle finanze, presentò alla Crui un progetto di sviluppo, all’interno di ogni ateneo, di un Ufficio acquisti, che si caratterizzasse come facilitatore per tutte le iniziative di innovazione sugli acquisti. Tale progetto, presentato anche ai funzionari del Miur di allora, prevedeva un esborso in finanziaria di 5 milioni di euro che sussidiasse con 80.000 euro qualsiasi ateneo che attivasse tale Ufficio. A fronte di queste spese la Consip stimava, in ottica cautelativa, un risparmio permanente annuale di 30 milioni di euro. Esso è rimasto lettera morta e nessuno all’interno della Crui né del Ministero ha pensato di attivarsi per esso. Gli Uffici acquisti rimangono a tutt’oggi una rarità nel panorama universitario italiano.

Ma il punto vero non è negli acquisti né nei tagli o minori aumenti degli stipendi. Quello che preoccupa è la preoccupazione del ministro Mussi sul cosiddetto effetto devastante «in termini di consenso». Il che consenso di chi? Dei mille e più docenti universitari firmatari degli appelli al ministro? Ma non sono loro di cui si deve preoccupare il ministro! Il consenso che deve cercare è quello dei giovani che cercano di ottenere un diploma di laurea competitivo per collocarsi con successo all’interno di un’economia globalizzata dove il posto di lavoro è conteso da giovani cinesi, coreani, americani, spagnoli ed indiani. E’ quello delle punte di diamante del nostro Paese che rimangono a fare ricerca all’estero in attesa di un sistema premiante per la qualità del loro lavoro. E’ quello delle imprese che hanno bisogno di giovani formati in maniera eccellente e deontologicamente corretta, e che permettano loro di competere a livello di eccellenza con le imprese degli altri Paesi. E’ il consenso di milioni di cittadini.

Un consenso del genere non si ottiene concedendo scatti di anzianità più alti, né più risorse per acqua, luce e penne. Si ottiene con un sistema in cui il 30% (e non l’uno per cento come oggi) dei fondi totali all’università siano ripartiti ai singoli dipartimenti solo ed esclusivamente in funzione della qualità della ricerca, valutata oggettivamente. E’ un sistema fattibile, visto che è da anni portato avanti con successo nel Regno Unito in un’ottica a predominante carattere pubblico. Ciò permetterà di abolire i concorsi e lascerà libere le università di assumere chi vogliono, differenziando i salari tra docenti come vogliono facendosi concorrenza e pagando in proprio le conseguenze di scelte malsane. Queste università diverranno famose nel mondo per la qualità della loro ricerca e per i suoi dottorati di ricerca di altissima reputazione. Alle rimanenti università senza fondi non resteranno che due alternative: chiudere (in fondo non ci si lamenta tutti del proliferare di atenei inutili?) o trovare i fondi sul territorio tramite fondazioni, banche e contributi privati se questi riterranno utile farlo. Pagheranno salari più bassi di quelle di ricerca che avranno budget certamente più ampi, ma riusciranno certamente ad attrarre buoni o ottimi insegnanti e competeranno tra di loro sulla base della qualità dell’insegnamento non tanto a livello di dottorato ma di lauree. Si verrà a creare endogenamente un sistema come quello americano, ma predominantemente pubblico, dove accanto a grandi università di ricerca convivono ottime piccole università specializzate in buona didattica.

Il consenso che il ministro otterrà dopo questa riforma sarà immenso, posso scommettere che sarebbe la causa della rielezione del suo governo. Ministro, non ascolti le sirene universitarie, si leghi all’albero della nave e prosegua verso l’ignoto. La aspetta fama eterna.


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