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Riformista: L'anomalia universitaria sono gli stipendi d'anzianità

ACCADEMICA. COSÌ VIENE PREMIATA LA SCARSA MOBILITÀ DI ALESSANDRO FIGÀ TALAMANCA

18/10/2006
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Il Riformista

Guadagnano troppo, o troppo poco, i professori universitari italiani? Il ministro dell'Università Mussi sembra ritenere che guadagnino troppo poco. Egli ha osservato, infatti, che un «direttore di ricerca» può guadagnare cinque volte meno di un parlamentare. Si riferiva probabilmente allo stipendio iniziale di un professore di prima fascia (cioè, in posizione giuridicamente apicale) che non raggiunge 2.500 euro netti. Non parliamo poi dello stipendio di primo ingresso nei ruoli, che avviene con la qualifica di “ricercatore” e con un netto mensile di 1.336 euro. Stiamo parlando, in questo caso, di un ultratrentenne, con alle spalle almeno cinque o sei anni di esperienza di ricerca dopo la laurea. Eppure, nonostante le parole del ministro, il disegno di legge finanziaria prevede una modesta (ma simbolicamente significativa) diminuzione dei compensi dei professori universitari. Sono infatti dimezzati i futuri “scatti di anzianità” di tutti i docenti universitari. Ha senso rallentare la progressione stipendiale di un “direttore di ricerca” che parte da 2.500 euro al mese, o di un giovane docente che parte da 1.336 euro al mese? Non solo sono pagati poco, ma si allontanano in questo modo per loro le prospettive di aumenti futuri.
Eppure se il governo, invece di formulare una ragionevole controproposta, cedesse alle pressioni dei docenti che si stanno adoperando per cancellare questa norma dalla finanziaria, si perderebbe un'occasione per fare un primo, piccolo passo, per sanare un'anomalia italiana nella distribuzione dei compensi dei docenti, che nei fatti impedisce una sufficiente apertura del mondo universitario verso l'esterno. Vediamo perché. Si parla tanto di “fuga dei cervelli”, cioè di ricercatori italiani che vengono reclutati all'estero. In realtà la fuga dei cervelli italiani è modesta in termini quantitativi paragonata a quella di altri paesi sviluppati. Quello che rende questo esodo grave è l'incapacità del sistema universitario italiano di attirare e accogliere altrettanti, o più numerosi, studiosi che si sono formati all'estero.
Una delle cause di questa incapacità è la struttura degli stipendi dei docenti universitari. Non è vero, come talvolta si sostiene, con una buona dose di superficialità, che i docenti italiani progrediscono nella carriera solo per anzianità. Come in altri paesi, i docenti sono divisi in tre “classi” diverse (da noi si chiamano “fasce”) e per passare da una classe all'altra è necessario un concorso, seguito da un periodo di “prova”. Il sistema sarebbe quindi molto competitivo e accessibile dall'esterno, anche ai gradi alti. Il problema è però che il livello stipendiale iniziale di ciascuna classe è molto basso, e in effetti ben inferiore al livello raggiungibile, per sola anzianità, nella classe inferiore.
In pratica, solo chi è interno al sistema e mantiene lo stipendio già maturato, per anzianità, nella posizione precedente, può accettare, ad esempio, di ricoprire una posizione di professore di prima fascia (“direttore di ricerca” per usare la terminologia del ministro), dopo aver vinto un concorso. Persino un interno avrebbe grosse difficoltà se dovesse affrontare le spese e le difficoltà di un cambiamento di sede, in assenza di un miglioramento stipendiale conseguente alla promozione. È praticamente impossibile che chi “viene da fuori”, non è ricco di famiglia, e ha le qualificazioni necessarie per vincere un concorso per professore di prima fascia, possa accettare di lavorare a 2.500 euro al mese, nella fase più produttiva della sua carriera scientifica. Non c'è quindi da meravigliarsi se c'è tanta poca “mobilità” internazionale nella direzione dell'Italia, tra gli scienziati. È difficile anche la mobilità interregionale.
A questi bassi stipendi iniziali, corrispondono invece, in ciascuna classe, stipendi finali, conseguibili per anzianità, abbastanza alti. In pratica, un docente con trent'anni di anzianità effettiva come “professore di prima fascia” può arrivare a guadagnare quasi il doppio di un collega, formalmente suo pari grado, che ha appena vinto il concorso. A fine carriera, anche il confronto internazionale, è favorevole al “nonno” italiano. Ad esempio, un anziano professore italiano di prima fascia, guadagna di più di un “professeur de première classe” francese, raggiungendo il compenso di un “professeur de classe exceptionelle” (una posizione riservata, in Francia, a pochissimi).
Cosa c'entra tutto questo con la correzione della scala stipendiale prevista dalla finanziaria? Purtroppo nulla, perché la proposta del governo non tenta nemmeno di correggere l'anomalia italiana. Altro sarebbe se il governo approfittasse di questa occasione per cominciare a “raddrizzare” le scale stipendiali. A parità di risparmi si potrebbero intanto bloccare del tutto (e non solo a metà) gli ultimi scatti di anzianità, senza toccare invece i primi scatti. In un secondo tempo i risparmi conseguiti bloccando gli ultimi scatti potrebbero essere ridistribuiti per alzare gli stipendi iniziali. La manovra del governo sugli stipendi dei docenti sarebbe allora inquadrata in una politica indirizzata, sia pure lentamente, a sanare l'anomalia delle scale stipendiali italiane e a rendere più competitiva l'università italiana. Un piccolo esempio di come anche le misure di contenimento della spesa possano essere indirizzate ad una maggiore efficienza del sistema.


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