Riformista: Il problema non è farli lavorare di più, ma meglio
Anche eliminando «inetti e renitenti», il recupero di efficienza sarebbe del 7-8%. Modificando i meccanismi salirebbe al 30-35%.
STATALI 2.
LA RIFORMA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE DEVE BADARE AL SODO DI MAURIZIO CASTRO
E’ certo positivo che sia divenuta convinzione condivisa e profonda la necessità di ammodernare la Pubblica Amministrazione, quale ineludibile leva competitiva per il sistema economico del Paese. Tuttavia, non è persuasiva la direzione assunta dal dibattito sui contenuti e sui modi della modernizzazione, che sembra concentrata soltanto sulla gestione della P.A. e sulle sue micro-dinamiche soggettive (i fannulloni tipizzati da un Ichino in vena moralisticamente teofrastea; la produttività individuale; la retribuzione di risultato; etc.). Un simile approccio ha finora trascurato i temi della organizzazione della P.A. e delle sue macro-dinamiche oggettive. Ma si tratta di aree d’intervento non comparabili per le dimensioni del recupero attingibile. Infatti, se anche si riuscisse a cacciare inetti e renitenti al lavoro e si adottassero le forme più aggressive d’incentivazione del merito personale, se ne conseguirebbe un beneficio, in termini d’efficienza generale, difficilmente superiore al 7-8% (e sarebbe già un gran risultato!).
Al contrario, un’azione ben condotta di ristrutturazione dei modelli di funzionamento attuali della P.A. (i cui difetti son ben noti e tutti riconducibili alla prevalenza del “procedimento” sul “provvedimento” e dunque all’assenza di cultura del risultato e della responsabilità, ovvero all’indifferenza al conseguimento effettivo del “bene comune” fondativo della legittimità originaria dell’agire amministrativo) genererebbe risultati stimabili - e largheggiando in prudenza - nel 30-35% d’incremento dell’efficienza.
Indichiamo tre sole direttrici d’azione, basate sulle buone pratiche finora registrate e sul loro “gettito”: la “reingegnerizzazione dei processi”, che van ridisegnati centralizzando quelli di supporto e ottimizzando quelli core; l’allineamento delle performance operative di tutte le articolazioni alle migliori già realizzate nell’amministrazione di riferimento; la riduzione dei costi d’approvvigionamento di beni e servizi attraverso operazioni di strategic sourcing e la valorizzazione degli asset (cessione e/o razionalizzazione degl’immobili, riforma della logistica, spin-off delle attività non-core). Qualche indicazione di chiarimento: mediamente, il 50% circa delle risorse umane è assorbito dalle mere funzioni di supporto, che fan segnare insieme una concentrazione spaventosa nelle attività di personale, contabilità, acquisti e uno sparpagliamento insensato nelle aree periferiche; la produttività degli uffici delle amministrazioni è mediamente doppia al Nord rispetto al Sud, e l’efficienza dei servizi resi dalla miglior sede rispetto alla peggiore supera spesso le quattro volte (violando la stessa identità pubblica, e cioè generale e omogenea, del servizio). Si spendono somme alluvionali per il rinnovamento dei sistemi informativi, vanificate a valle dalla mancata ricezione in termini di condotte organizzative dell’innovazione tecnologica. Il top management pubblico soffre d’una bassa predisposizione al cambiamento (età elevata, strumentazione manageriale datata, esperienza monoculturale, meccanismi cooptativi di selezione). I modelli di governance sono arzigogolati, funzionali al mantenimento dello statu quo e inibitori d’ogni innovazione; e quelli di controllo asfissianti sulle procedure e disinteressati ai risultati. Le relazioni industriali nel pubblico sono infine largamente pre-europee, attardate in logiche difensive e micro-gestionali.
Per dirla in modo ruvido: non perdiamo tempo a cacciar via dagli uffici i fannulloni, riformiamo invece profondamente l’organizzazione di quegli uffici (che - restando come sono - impedirebbero anche a Jack Welch reinventatosi travet d’ottenere decenti risultati!).
Come conseguire un risultato minimo, in un orizzonte a tre-cinque anni, di miglioramento dell’efficienza del 30-35%? Innanzitutto, selezionando con un’operazione straordinaria, auspicabilmente bipartisan e corroborata da un previo patto concertativi con le organizzazioni sindacali, un “corpo speciale” di top manager pubblici cui affidare le singole missioni di risanamento e di sviluppo e le cui fila siano alimentate da executive a forte vocazione sociale, formati o testati nel settore privato, nelle compagnie pubbliche, nell’accademia e nelle istituzioni, nel terzo settore e nel sindacato, ma avvezzi a contesti organizzativi segnati dall’internazionalità, la competitività, l’innovatività, la dinamicità e persino la turbolenza. Poi, affiancando a tale “corpo speciale” un’Autorità per l’eccellenza delle P.A., composta da rappresentanti degli stakeholder politici, istituzionali e sociali, che definisca - sulla base dei Piani straordinari presentati dai manager “affidatari” di ciascuna missione pubblica - gli obiettivi di sistema per il miglioramento delle performance, disponga anche in via eccezionale la dotazione delle relative leve organizzative, monitori il processo di conseguimento dei target e amministri i meccanismi di premio-sanzione. Poiché una partita siffatta si gioca sul terreno delle “leve” messe a disposizione del nuovo management pubblico per il compimento di quest’operazione epocale (che non a caso evoca l’orizzonte clintoniano del “nuovo governo”), un’alternativa, concettualmente brusca ma gestionalmente efficace, all’affidamento all’Autorità della cassetta degli attrezzi da distribuire per la messa a regime delle Amministrazioni, è la trasformazione della più gran parte, in senso orizzontale e verticale, di queste in ’società per azioni’, ovviamente a totale e irrevocabile controllo pubblico (e ovviamente con ogni debita avvertenza e adattamento di natura e regime giuridici). Penso non solo a tutte le organizzazioni - enti, istituti e agenzie (dall’Inps all’Ice, dai Monopoli alle Entrate) - che svolgono attività di servizio; ma anche allo spin-off, con la relativa concentrazione in società specializzate, delle funzioni strumentali (personale, contabilità, sistemi informativi, acquisti, patrimonio, comunicazione, etc.) dei Ministeri. Le spa così costituite sarebbero rette, secondo lo schema duale, da un Consiglio di Sorveglianza espressione del Governo (con la “garanzia” del Parlamento e colla presenza, ove opportuna come negli enti previdenziali, delle parti sociali) e da un Consiglio di Gestione espressione del management.
Infine, le risorse liberate da ciascuna Amministrazione - oltre a consentire l’assorbimento indolore del turnover anche laddove si decida, saggiamente, d’intensificarlo o accelerarlo - sarebbero destinate, attraverso una mobilità obbligatoria ma ben indennizzata, nell’ordine: a rafforzare le missioni e le funzioni core e come tali ad alto valore aggiunto dell’Amministrazione di provenienza; a soddisfare le domande di servizio pubblico non coperte da una mappa dei “bisogni” ancora ispirata a un’antropologia sociale novecentesca; a coprire le esigenze delle altre Amministrazioni; a migrare, con apposito programma d’incentivazione, verso il privato.