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Riformista: Il mercato del lavoro mortifica i laureati. Colpa delle imprese e del sistema educativo

Con l’articolo di oggi l’appuntamento settimanale del Riformista con i temi dell’istruzione e della formazione diventa fisso. Un gruppo di collaboratori (Campione, Farinelli, Ferratini, Maragliano, Ribolzi, Tagliagambe,) che hanno fatto parte del gruppo del “Buonsenso”

13/07/2006
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Il Riformista

ISTRUZIONE 1. I DATI DELL’INDAGINE DI UNIONCAMERE

DI FIORELLA FARINELLI

Con l’articolo di oggi l’appuntamento settimanale del Riformista con i temi dell’istruzione e della formazione diventa fisso. Un gruppo di collaboratori (Campione, Farinelli, Ferratini, Maragliano, Ribolzi, Tagliagambe,) che hanno fatto parte del gruppo del “Buonsenso” che ha tenuto accesa una discussione che voleva superare le contrapposizioni pregiudiziali, proporrà settimanalmente e con quello stesso spirito, spunti per una discussione costruttiva.

Tra i dati dell’ultima Excelsior - l’indagine Unioncamere sui bisogni professionali delle imprese - ce ne sono alcuni di grande interesse per le politiche educative. Per chi si sente già con un piede dentro la mitica «economia della conoscenza», è un pugno nell’occhio che ben il 34,8% delle assunzioni per il 2006 riguardi personale con la sola licenza media. Ed è una contraddizione evidente rispetto a quel 97% di giovani che si iscrive alla superiore. Sono dunque irrealistiche le politiche scolastiche che, indipendentemente dal colore dei governi e dall’efficacia delle soluzioni volta a volta adottate/ipotizzate, si prefiggono di innalzare le competenze di base di tutti i giovani (e anche degli adulti) e di contrastare quella dispersione per cui 1 ragazzo su 4 non consegue né diplomi né qualifiche? In verità a sbagliare, in questo caso, non sono le politiche scolastiche. Il problema sta piuttosto nelle caratteristiche del sistema produttivo, nel suo assetto dimensionale, nel difficile decollo di quell’innovazione non solo di processo ma anche di prodotto, non solo delle singole aziende ma anche di sistema, che dovrebbe assicurare una migliore competitività nel mercato globale. Sono del resto soprattutto le piccole imprese, in particolare nei servizi, che oggi fanno la nuova occupazione, mentre resta stabile l’impresa media e decresce la grande. Le stesse che fanno pochissima formazione continua (precipitata sotto il 20%, in tutto il comparto privato, con un calo di oltre 4 punti negli ultimi 4 anni), che trovano più conveniente il personale a scarsa qualificazione, che possono se necessario sostituirlo più agevolmente di quelle con più di 15 dipendenti.
Perfino nel turismo aumentano camerieri e cuochi, ma non i tecnici del marketing o i manager: e la Francia, battuta sul campo di calcio, ci supera alla grande per quantità e qualità dei flussi turistici. La domanda di bassi livelli di istruzione e lo scarso investimento in formazione vanno insieme con un utilizzo modesto dei diplomati e troppo basso dei laureati (8,5%), e con una richiesta di figure specialistiche limitata al 16%. Problemi complicati. Ma scuola e formazione fanno bene, se ci riescono, a puntare alto. Non è solo questione di cittadinanza. Senza solide competenze, culturali e professionali, l’occupabilità è un’avventura spericolata. Tanto più quando le assunzioni a tempo determinato sono, per la prima volta, meno di quelle a tempo indeterminato. La formazione iniziale e permanente è anche welfare, nuovo welfare “attivo”, non va dimenticato.
Ma altri dati interpellano duramente i sistemi educativi. Le difficoltà di reperimento di alcune figure di livello professionale intermedio restano alte, di più nell’industria, in particolare nel Nordest (33%). La corsa alla licealizzazione e a tempi formativi sempre più lunghi, se mortifica propensioni e talenti demotivando molti, distoglie dalle competenze tecnico-operative spendibili nel mercato del lavoro. Gli esiti delle lauree triennali sono poco comprensibili per le imprese (e in verità anche per molti studenti). La distanza della scuola dal lavoro impone costosi processi di integrazione nei contesti aziendali. Qui l’education ha non poche responsabilità. Ed è evidente la necessità di cambiare passo. Non basta la replica delle strategie degli anni ’70, quando si trattava di superare la contrarietà di molte famiglie ad investire nell’istruzione. All’ordine del giorno ci sono: una diversificazione dei percorsi capace, a partire dalla fascia d’età 14-16 anni, di ridurre drasticamente la dispersione e di riconoscere le vocazioni dei ragazzi; la valorizzazione dell’istruzione/formazione professionale in un sistema unitario ed integrato, e il suo sviluppo in alto, in percorsi anche non accademici; la definizione, condivisa tra Stato e Regioni, di obiettivi e standard formativi per una valutazione scientifica dei risultati, restituendo credibilità ai titoli di studio, validità nazionale alle qualifiche, serietà e controllabilità all’impegno di studenti ed insegnanti; il decollo della formazione permanente e l’adozione di dispositivi per il riconoscimento delle competenze comunque e dovunque acquisite, nei percorsi formali e nel lavoro. Se gli obiettivi di Lisbona sono forse da rivedere, ci sono temi europei - l’orientamento, lo studio-lavoro, la responsabilità delle imprese nella formazione, a partire dall’apprendistato formativo - che non possono aspettare.


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