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Riformista: Il bilinguismo è la vera risorsa per una società multietnica

IMMIGRATI. NELLO STUDIO DELLE LINGUE LA CHIAVE PER L’INTEGRAZIONE DI STEFANIA GIANNINI

06/10/2006
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Il Riformista

[...] La Dichiarazione di Barcellona del 1996 tende a superare il concetto di lingua nazionale e di lingua minoritaria attraverso l’enucleazione del concetto di comunità linguistica e l’affermazione di specifici diritti, tanto individuali quanto collettivi; favorisce inoltre il mutuo rispetto fra le diverse comunità linguistiche ed elenca i diritti personali inalienabili nonché quelli collettivi dei gruppi, propendendo per un modello di «integrazione» piuttosto che di «assimilazione» delle persone appartenenti a comunità linguistiche diverse da quelle prevalenti.

Nelle attuali dinamiche internazionali ed europee, la meta, cui legittimamente aspira un paese di recente ma ormai consolidata immigrazione come l’Italia di oggi, è rappresentata dall’ideale di una società multietnica e plurilingue, in cui il dovere di identificare e conoscere l’altro da parte dei più (uguali e maggioritari, per lingua, razza, religione, cultura e cittadinanza all’interno di uno Stato-nazione) si combina col diritto dell’altro (estraneo al contesto, diverso e minoritario) a manifestare e conservare le proprie differenze. Il bilinguismo è quindi la risorsa sociale più naturale ed efficace per raggiungere condizioni politiche di autentico pluralismo linguistico e culturale.

Nelle moderne democrazie occidentali, esso potrà diventare il principale strumento per l’espressione e l’affermazione dell’identità, intesa come parte di quel patrimonio individuale fatto di conoscenze, credenze e sistemi di rappresentazione simbolica della realtà, che uno stato deve assicurare ai propri cittadini, così come ai “diversi”, stranieri stabilmente insediati o migranti, sia sul piano del diritto individuale che nell’ambito dei diritti collettivi. La situazione italiana è ben lontana dal pluralismo linguistico. Oltre a indici di scolarizzazione inferiori rispetto ai valori indicati dalle medie Ue , l’Italia deve affrontare due questioni: l’inserimento e la scolarizzazione dei bambini stranieri con lingue materne diverse dall’italiano e l’alfabetizzazione in italiano della popolazione immigrata adulta nel rispetto delle lingue minoritarie.

Le condizioni linguistiche degli immigrati nel momento del loro arrivo in Italia sono le più disparate. In possesso non di rado di un titolo d’istruzione medio-superiore conseguito nel paese di origine, talora gli immigrati conoscono una o più lingue europee, che filtreranno l’apprendimento dell’italiano: gli arabofoni che vengono dai paesi dell’Africa nordoccidentale conoscono di norma, come i senegalesi (in Senegal si parlano più lingue diverse fra loro), il francese; gli immigrati dal Ghana o dalla Nigeria l’inglese, lingua meno prossima all’italiano del francese. Altri invece al loro arrivo conoscono già alcuni elementi di italiano, come si verifica soprattutto per coloro che provengono dalle ex colonie, nelle quali l’italiano, anche dopo la seconda guerra mondiale, ha continuato ad avere una sua vitalità. Risulta, ad esempio, che l’italiano sia l’unica lingua conosciuta (a livello elementare) per molti somali. Gli immigrati adulti che arrivano in Italia iniziano o rafforzano la loro pratica della lingua attraverso un apprendimento spontaneo, extrascolastico: la preoccupazione più urgente è la ricerca di un lavoro, e la pratica delle relazioni con il paese ospite, dentro e fuori il lavoro, fa da maestra della lingua, coadiuvata talvolta dalla frequenza di un corso per adulti o dall’uso di un corso su nastro. Dal punto di vista dell’apprendimento di una lingua, una comunità fortemente compatta o chiusa o con un forte senso di identità o capace di organizzarsi in modo da realizzare l’autosufficienza interna e ridurre al minimo le relazioni con l’ambiente esterno sarà portata a conservare la lingua materna e a non imparare la lingua del paese d’immigrazione, o a impararla poco (è questo il caso dei cinesi). Diversa è la situazione dei figli degli immigrati, che accedono alla scuola nel paese d’immigrazione; per essi si può prevedere un’italianizzazione, di norma, più compiuta di quella che è accessibile all’apprendimento spontaneo dei genitori.

Il tema linguistico peraltro è oggetto di profonda riflessione politica anche al livello europeo; sotto la guida del Consiglio d’Europa sono stati individuati criteri omogenei per misurare e certificare il grado delle conoscenze linguistiche delle maggiori lingue europee (come lingue seconde), la cornice del progetto è determinata dal Quadro Comune Europeo di Riferimento. L’Italia risulta attualmente ben inserita, in questo senso, nel settore europeo della certificazione linguistica, ne è infatti membro attivo attraverso l’impegno ed il lavoro del sistema universitario che dispone di sistemi di certificazione specifici. L’Unione Europea rappresenta una vera e propria istituzione multilingue: composta da 25 stati membri per un totale di 20 lingue ufficiali, parlate da circa 500 milioni di abitanti, l’UE subirà una significativa evoluzione dal punto di vista linguistico con l’entrata della Bulgaria e della Romania, nonché con il prossimo inserimento dell’irlandese. A partire dal prossimo anno, le lingue ufficiali saranno dunque 23. L’intervento dell’Unione in materia di multilinguismo verte essenzialmente a potenziare le conoscenze di lingue altre di ogni cittadino comunitario (ogni cittadino dovrebbe parlare due lingue oltre alla propria lingua madre); a promuovere l’apprendimento delle lingue fin dall’infanzia, il cosiddetto plurilinguismo precoce, e, contestualmente, a riconoscere ed evidenziare il ruolo chiave dell’istruzione in questo settore. La promozione di una valida economia multilingue è pertanto la premessa fondamentale per rendere ancor più efficace il parametro del multilinguismo in Europa.

Tuttavia, un paese come l’Italia deve porsi come obiettivo primario in campo linguistico un piano didattico e pedagogico che investa in eguale misura gli alunni stranieri con lingue prime minoritarie e appartenenti a comunità destinate all’integrazione e gli alunni italofoni (8.702.000 nel complesso delle nostre scuole), che studiano, molto spesso con scarso successo, inglese e francese o altre lingue straniere, e che appartengono alla comunità di accoglienza e di potere.

Nel primo caso un programma forte di educazione bilingue (bilingual education), nel quale due lingue vengono usate come strumento didattico e veicolo di contenuti al di fuori delle ore di lezione dedicate alle lingue stesse, permette al bambino di estrazione minoritaria il mantenimento in vivo della propria competenza nella lingua madre (l’albanese o l’arabo, ad esempio) e di acquisire nel contempo la competenza attiva della lingua ufficiale (l’italiano). Si afferma in tale modo il dovere collettivo che ciascuna comunità ospite ha di garantire l’esistenza e la riproduzione di ogni minoranza come tale. L’attivazione di questo modello didattico garantisce ai membri delle comunità minoritarie un vero e proprio diritto umano linguistico, ossia uno di quei diritti, basilari e inalienabili, spettanti ad ogni individuo in quanto essere umano. L’apprendimento completo (native-like) di una seconda lingua o di una lingua straniera rappresenta un diritto linguistico appartenente alla persona e fondamentale per il miglioramento delle sue prospettive di vita.

Rettore dell’Università per Stranieri di Perugia


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