Riformista: Alziamo gli stipendi dei ricercatori ma non con aumenti indiscriminati
SULLA PROPOSTA DI MUSSI DI ALESSANDRO FIGÀ TALAMANCA
UNIVERSITÀ.
«Gli stipendi dei ricercatori sono oltraggiosi, voglio aumentarli del 20%». Così si è espresso il ministro Mussi qualche giorno fa sull’Unità. La prima affermazione del ministro è assolutamente condivisibile. A un giovane ricercatore universitario a tempo pieno, dopo otto o nove anni di studi universitari, comprensivi di un dottorato di ricerca, e almeno tre anni di esperienza di ricerca in una posizione post-dottorale, viene offerto uno stipendio netto di 1.336 euro mensili. Con questi stipendi siamo fuori del mercato europeo per il reclutamento dei docenti. Tuttavia l’intenzione apparente del ministro di aumentare indiscriminatamente gli stipendi dei ricercatori del 20%, dovrebbe essere esaminata più attentamente. Intanto non sarebbe veramente sufficiente per rendere lo stipendio iniziale del ricercatore competitivo a livello nazionale, in secondo luogo premierebbe molto di più in termini assoluti e senza una vera motivazione, i ricercatori anziani, entrati con le idoneità degli anni Ottanta, il cui stipendio, conseguito solo per anzianità, supera quello di un professore ordinario appena entrato nei ruoli.
Una proposta più ragionevole e probabilmente meno costosa è quella di abolire le prime classi di stipendio e stabilire che il vincitore del concorso a ricercatore entri direttamente nella quinta classe di stipendio, lasciando invece invariato lo stipendio dei ricercatori che sono già nella quinta classe e oltre. A questo punto lo stipendio iniziale del ricercatore risulterebbe aumentato del 45%, aumenterebbe anche lo stipendio dei ricercatori entrati per concorso negli ultimi anni, che non hanno avuto ancora la possibilità concreta di essere promossi alla fascia superiore. Resterebbero uguali (salvo gli aumenti già previsti dalla legge) gli stipendi dei più anziani. Questa operazione comporterebbe naturalmente una spesa maggiore che dovrebbe essere rimborsata alle università. Tuttavia consentirebbe al ministro un’analoga operazione per le fasce dei professori associati e ordinari, che potrebbe non produrre ulteriori costi a livello centrale, ma solo un incentivo per le università a ripartire in modo diverso le spese per la docenza.
Basterebbe stabilire che chi entra con le nuove norme concorsuali e il nuovo stato giuridico, nei ruoli di professore associato e ordinario, entri direttamente nella quinta classe di stipendio.
La recente legge sullo stato giuridico dei docenti ha infatti creato un discrimine tra i docenti ordinari e associati entrati in ruolo con la vecchia normativa e quelli che entreranno in ruolo con le nuove norme. Ha determinato anche una “moratoria” per i concorsi in questi ruoli perché le nuove norme richiederanno quantomeno correzioni tecniche per essere applicate. È possibile quindi intervenire ora sugli stipendi dei docenti che saranno assunti con le nuove norme, senza modificare lo stato giuridico degli altri. La quinta classe di stipendio è quella che comunque sarebbe già raggiunta ora, dopo un «periodo di prova» di tre anni, dai professori che hanno al loro attivo almeno dodici anni di servizio nel ruolo precedente. Questo premio all’anzianità potrebbe essere abrogato per i nuovi assunti, in modo che abbiano la stessa remunerazione gli anziani dei ruoli precedenti, i più giovani e chi è assunto come professore senza essere stato precedentemente nei ruoli universitari.
Risulterebbe allora più facile reclutare docenti dall’estero e sarebbe anche più conveniente per un giovane che appartiene già ai ruoli universitari andare in cerca di una promozione in una sede diversa dalla sua, perché la promozione comporterebbe subito un buon aumento di stipendio, che potrebbe compensare le spese di trasferimento.
Naturalmente questi cambiamenti non avrebbero costo zero per le sedi, ma non dovrebbe essere necessario aumentare il Fondo di finanziamento ordinario delle Università, perché le sedi saprebbero in anticipo quel che si devono aspettare quando reclutano professori. Sarebbero così incentivate a sopperire alle necessità didattiche assumendo prevalentemente ricercatori universitari, e sarebbero disincentivate a subire le pressioni dei loro stessi docenti per promozioni che appaiono inizialmente a costo zero, e si rivelano costose dopo qualche anno, in virtù dei riconoscimenti di anzianità.
Certamente questo intervento sulle scale stipendiali non risolverebbe tutti i problemi della progressione di carriera dei docenti. Le università dovrebbero essere incentivate anche a promuovere i più meritevoli ai ruoli più alti. A questo proposito il ministero potrebbe inasprire i «requisiti minimi» per l’attivazione di un corso di laurea magistrale, o di un corso di dottorato, stabilendo che non si possano attivare corsi di questi livelli senza disporre di un numero adeguato di professori di prima fascia o di seconda fascia nelle discipline di base e caratterizzanti. Idealmente le nuove sedi e le sedi in espansione sarebbero costrette a reclutare docenti dei ruoli superiori, oppure a rinunciare a offrire corsi di studio di livello magistrale o dottorale. Le vecchie sedi con molti vecchi professori di ruolo recluterebbero prevalentemente ricercatori universitari, i quali sarebbero però incentivati a cercarsi una promozione e relativo aumento di stipendio altrove.