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Riformare il modello. E poi?

Sugli esami di stato. di Antonio Valentino

07/07/2012
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ScuolaOggi


Richiami necessari

Ha fatto bene Maurizio Tiriticco a richiamare, nel suo recente articolo per ScuolaOggi, le trasformazioni attraverso cui si è passati per giungere all’attuale modello di Esame di Stato e la strada che bisogna ancora percorrere perché un elemento centrale e profondamente innovativo - previsto dalla legge 425/97, Ministro Berlinguer -  possa dare i suoi frutti.

Il riferimento è alla certificazione delle competenze che segnava il passaggio dall’Esame di Maturità (riformato con la L. 119 del 1969,  il cui fine era “la valutazione globale della personalità del candidato”) al modello degli Esami di Stato centrato sulla certificazione delle competenze.

Con il provvedimento del ‘97 si prende atto – come ci richiama sempre Tiriticco – che quello che diventava centrale nella valutazione conclusiva non era tanto l’accertamento della pretesa  “maturità” del candidato, quanto piuttosto “cosa concretamente sapesse fare in relazione a quanto appreso negli anni di scuola”.

Ricordano bene quanti hanno vissuto attivamente quegli anni che il “modello Berlinguer” non trovò però, nella regolamentazione prevista dalla Legge, indicazioni operative efficaci; anche perché, sulla nozione di competenza, le idee non erano sufficientemente chiare e appariva arduo il compito di individuare, definire e descrivere, per  ciascun percorso, le competenze terminali da accertare. Da ciò il pasticcio del modello di certificazione integrativo del diploma su cui continuano ancora a cimentarsi con spirito rassegnato le commissioni degli Esami di Stato nell’anno di grazia corrente.

E oggi?



I nuovi punti fermi

Oggi la situazione appare più chiara, perché, sia sul fronte dell’idea di competenza, sia su quello della descrizione della stessa, si sono fatti importanti passi in avanti. Sul primo, attraverso la Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008 - che offre una definizione ancora perfettibile, ma sufficientemete chiara del concetto di competenza (su questo sono più dubbioso e guardingo di Tiriticco che la definisce “netta ed inequivocabile”) -; sul secondo, attraverso le Linee Guida per gli Istituti Tecnici  e Professionali   e le Indicazioni Nazionali  per i Licei (dove di più si colgono confusioni, contraddizioni e resistenze), emanati a seguito delle operazioni di Riordino volute da Fioroni e portate avanti dalla Gelmini.

Con Tiriticco è opportuno richiamare a questo punto che nel giugno del 2015 il Riordino (che dal settembre prossimo interesserà le classi terze sul versante dei contenuti e dei tempi di insegnamento) andrà a regime. Quindi l’attuale EdS dovrà necessariamente essere riformato perché si possa procedere, con un qualche fondamento, ad accertare e certificare le competenze in uscita delle classi quinte che avranno seguito i nuovi corsi previsti.

E dovrà essere riformato stando attenti a che la  riforma metta in primo piano le competenze chiave per una cittadinanza attiva. La quale passa principalmente - sappiamo - attraverso  capacità che vanno dalla correlazione dei saperi al loro uso in contesti diversi, dalla strutturazione di un progetto, ai livelli di autonomia nell’affrontare un ‘compito’, dal saper  porre problemi al saperli impostare  ai fini della loro risoluzione.

E non dovrebbe essere questa un’attenzione di poco conto.



La priorità di una riforma:  attrezzare le scuole.

Ma, per arrivare alla scadenza del 2015 con le carte in regola, ritengo che l’apposita commissione - da insediare in tempi brevi - sia preliminarmente impegnata sulle criticità rilevate da più parti nella individuazione e nella formulazione delle competenze in uscita per i vari percorsi di studio (il riferimento è ad alcune genericità, imprecisioni e disomogeneità di impostazione nei PECUP e nelle Linee Guida). 

Occorre che i diversi repertori siano il più possibile univoci e gli indicatori di risultato siano effettivamente tali e costituiscano guida nella messa a punto delle prove.

Il problema centrale è però costituito, credo, dal fatto che la cultura delle competenze non ha ancora attecchito dentro le nostre scuole e le stesse Linee guida del primo Biennio non sono diventate tali nella maggior parte dei casi.  D’altra parte la stessa gestione della scheda per la certificazione delle competenze (per alcuni aspetti, tra l’altro, ambigua), da quello che si sa e che si è visto, non è stata finora tale da lasciare bene sperare per il futuro.

Probabilmente c’è una responsabilità anche degli addetti ai lavori. Ma la vera questione è che non c’è governo del sistema. Così capita che le innovazioni non solo arrivino alle scuole senza che ci sia stato un adeguato coinvolgimento prima, ma soprattutto che non ci sia formazione e aggiornamento e conseguente monitoraggio sui processi e una valutazione dei risultati. 

Tra parentesi: qualcuno al MIUR sa cosa ne è stato delle Linee Guida per il primo Biennio delle Superiori? A settembre dovrebbero entrare in vigore le Linee guida per le classi terze. Quante scuole arriveranno preparate? Lo sanno al Ministero? 

Questo per dire che il quadro è molto complicato e le speranze di una pur necessaria riforma degli Esami di stato non si discostano di molto dal livello zero.



Le criticità del modello attuale

Comunque tale riforma – se qualcuno vorrà pensarci concretamente - non potrà  non partire dalle criticità del modello attuale.

C’è  la necessità di un ripensamento radicale delle prove (proprio a partire da profili in uscita che andrebbero meglio scanditi in termini di competenze): quante? Con quali modalità? È opportuno che rimanga ancora una prova per accertare la padronanza della lingua italiana a conclusione delle ‘Superiori’? Non dovrebbe essere un prius in assenza del quale l’esame non si dà? Quale equilibrio tra due esigenze egualmente importanti: tenere nel debito conto l’autonomia delle scuole - e quindi la loro offerta formativa - e ancorare l’esame  al Profilo culturale e professionale  in uscita, visto anche come gararanzia dell’unitarietà del sistema?

Al riguardo, è opportuno  prevedere una prova a carattere nazionale sugli apprendimenti - chiave, per ciascun percorso di studi, di cui verificare la padronanza?

Certamente, comunque, andrebbe superata l’attuale terza prova.

L’ex ministro Gelmini, l’anno scorso, più o meno di questi tempi, ci aveva assicurato che la terza prova dal 2012 sarebbe stata sempre di carattere pluridisciplinare e a carattere nazionale (i test sarebbero stati cioè elaborati centralmente). Ne aveva già parlato l’anno prima.

La Gelmini è uscita fortunatamente di scena alla fine di dicembre e, del decreto attuativo, neanche l’ombra. Qualcuno potrebbe dire: meno male. E a ragione.

Però il problema c’è. E l’opportunità di una verifica multisciplinare su base nazionale non è una idea peregrina.

D’altra parte, come ben sa anche chi  considera la questione con un po’ di buon senso,  i test dell’attuale terza prova d’esame permettono di verificare ben poco della effettiva preparazione degli studenti  nelle aree disciplinari dei vari corsi (ma dovremo ancora parlare di discipline in un Esame di stato?); inoltre, essendo strutturati su contenuti e secondo finalità diversissimi da commissione a commissione,  non permettono confronti e rilevazioni sensate (nonostante la presenza di una ‘banca nazionale’ alla quale in pochissimi attingono), capaci di dare gambe e valore ad un curricolo nazionale. 

Va rilevato inoltre che, delle varie tipologie previste nell’attuale terza prova - trattazione sintetica di argomenti, quesiti singoli o multipli, soluzione di problemi o di casi pratici e professionali o sviluppo di progetti (L. 425/997, art. 3 c.2) - solo le prime due risultano di fatto “gettonate” dalle scuole e quindi dalle commissioni. Pertanto le pratiche, comuni un po’  a tutte le commissioni, ‘schiacciano’ sul nozionistico l’insieme della prova, depotenziandola degli aspetti più innovativi, legati alla soluzione di problemi o allo sviluppo di progetti; e quindi all’accertamento di competenze - chiave del profilo in uscita.

(Ci sarebbe da chiedersi in proposito quali possano essere state le ragioni per cui sono prevalse le pratiche riduttive e poco sensate che in tanti lamentano. Ma non si è lontani dal vero a pensare che debbano  soprattutto essere ricercate nella mancanza, dalla prima ora, di una formazione mirata e “obbligata” dei docenti e dei dirigenti; per cui un certo pressappochismo e una qualche incoerenza, rispetto agli oggetti di verifica e valutazione, han finito col creare situazioni diffuse di inadeguatezza e vacuità).



Un  approfondimento infine richiederebbe anche il colloquio conclusivo: che è questione non meno complicata. Anche qui i fattori che entrano in gioco sono molteplici, e non pochi rinviano a quegli aspetti – poco coltivati - del profilo professionale di Docenti e DS che vanno sotto le categorie del ‘coordinamento’ e del ‘lavorare in team’, ma anche dell’’ascolto’ e del ‘relazionarsi in una logica di reciprocità’ .

Aspetti problematici su cui una formazione solida e diffusa di docenti e dirigenti scolastici potrebbe costituire leva importante di miglioramento. Solo se ne avesse la consapevolezza e si prevedessero percorsi di crescita e motivazione professionale, di accompagnamento, di cura e manutenzione di quanto si mette in campo, di investimenti. Ma, almeno su questi ultimi, sembra di capire - dal vento che tira -, “che non è cosa”. 

Comunque il nodo è qui. E, se non lo si scioglie, non ci sono nuovi modelli che tengano, né riordini con Indicazioni nazionali o Linee guida, né autonomia più o meno statutaria che possano spostare in avanti l’attuale penoso stato delle cose.

La vera riforma della nostra scuola passa, prima di tutto, attraverso la riforma (lato sensu) dei docenti.  La considerava centrale, già negli anni 70, Lucio  Lombardo Radice che ne dibatteva, con altri prestigiosi esperti, sulla Rivista “Riforma della scuola” (casa editrice: Editori Riuniti. Del PCI. Per dire).



Superare la Gelmini

Ancora un ultimo nervo scoperto:  è quello dell’ammissione agli esami.

Secondo la norma introdotta due anni fa dall’ex Ministro Gelmini, “sono ammessi all'Esame di Stato gli alunni che (…) nello scrutinio finale conseguano una votazione non inferiore a sei decimi in ciascuna disciplina (…)” (art. 6, comma 1, D.P.R. 22 giugno 2009, n.122).

Dalla spinosa situazione che ne è sortita a livello nazionale penso si possa uscire recuperando alcuni orientamenti dettati da coerenza e buon senso.

Il primo: gli  studenti vanno ammessi o no, non tanto sulla base del rendimento in una singola disciplina - che ci farebbe fare grossi passi all’indietro - quanto piuttosto  sulla preparazione complessiva e sull’adeguatezza o meno (soprattutto  in termini di autonomia rispetto allo svolgimento del “compito”) di tale preparazione rispetto al profilo in uscita dei vari indirizzi di studio. Il CdC dovrebbe pertanto deliberare soltanto sulla base di accertamenti quali: la frequenza alle attività della classe e i risultati delle prove svolte; che dovrebbero essere tali da offrire, con una ragionevole approssimazione, condizioni minime per affrontare l’esame .

Ovviamente altre soluzioni sono ipotizzabili. Quella che va comunque superata è l’attuale modalità.



E, per finire, alcune altre questioni solo apparentemente marginali. Tre in modo particolare.

La prima: come recuperare - precisandole, rendendole fattibili e favorendole con misure opportune - alcune indicazioni operative pur presenti nella normativa in vigore, ma finora  del tutto disattese.

La seconda: i luoghi di svolgimento degli esami devono continuare ad essere  anonime aule allestite alla bene e meglio per l’occasione, o non piuttosto i laboratori di specializzazione (almeno laddove ci sono; e in  molti istituti ci sono), con la loro strumentazione e i loro materiali da utilizzare opportunamente?

E ancora: occorre rassegnarsi all’ attuale pratica prevalente delle “tesine” come forme sconnesse e improbabili di pluridisciplinarità / interdisciplinarità, oppure favorire nel colloquio, attraverso opportuni dispositivi premianti,  la presentazione di ‘prodotti’ didattici costruiti dai candidati, da soli o in gruppo, come segni di autonomia e responsabilità e oggetti prioritari di colloquio e valutazione?

E poi: l’Europa  non ha niente da suggerirci in materia?
 


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