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Ricercatori, riforma a ostacoli

Dubbi sui tempi, le carriere e la costituzionalità della delega: ci vorrà più di un anno per i primi effetti delle norme sulla Pubblica amministrazione in discussione alla Camera

05/06/2015
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Corriere della sera

Paolo Romano

Portare la ricerca e i ricercatori sul binario virtuoso degli standard europei, senza che lo Stato spenda un euro in più rispetto ad oggi, è l’obiettivo di una norma, molto articolata, inserita nel disegno di legge che delega il Governo a riorganizzare la pubblica amministrazione, ora in discussione a Montecitorio dopo l’approvazione in Senato. La semplificazione dell’attività degli enti pubblici di ricerca (Epr), in effetti, si attende da almeno un paio di legislature e, se approvata, aprirebbe la pista per il rilancio della competitività attraverso la ricerca. Un comparto che conta quasi 30 mila addetti (di cui il 40% è precario) e che, allo stato, sconta sia la scarsa autonomia, anche di spesa, per garantire efficienza al lavoro sia l’equiparazione dei ricercatori ai dipendenti pubblici, contrariamente a quanto avviene in altrei Stati, dalla Germania alla Spagna, agli Usa. Il lieto fine per la semplificazione degli Epr, tuttavia, è tutt’altro che certo, in particolare se la delega all’esame di Montecitorio fosse approvata così com’è. E in effetti, sopra il cielo di una riforma attesa da anni, ci sono almeno tre nuvole nere: i tempi dell’entrata in vigore, alcuni contenuti del provvedimento – che fra l’altro hanno messo i sindacati sul piede di guerra -, e la sua costituzionalità.

La fretta per cominciare

Poche volte come in questo caso è vero che il tempo è denaro, anche perché ogni ritardo sulla riforma si traduce in un ritardo per sfruttare al meglio i pur ingenti finanziamenti Ue. Una volta approvata la legge di delega, infatti, sono previsti dodici mesi affinché il Governo la attui; si tratta di un termine che potrebbe allungarsi di altri novanta giorni, grazie alla formula dello “slittamento” della delega, espressamente previsto nel dispositivo. Se, dunque, come si pronostica, la legge fosse approvata entro l’estate, si rischierebbe, comunque, di attendere la fine del 2016 per produrre effetti, senza contare eventuali altri mesi per gli adempimenti. Non proprio poco tempo, rispetto all’obiettivo-pilota: riallineare gli Epr e il loro personale ai cugini europei, sia quanto a pratiche effettivamente “improntate ai principi di responsabilità ed autonomia decisionale” sia quanto a un “inquadramento della ricerca pubblica in un sistema di regole più snello ed appropriato”, ha scritto il Servizio Studi della Camera in un dossier di pochi giorni fa. Su questo, i tecnici di Montecitorio ricordano anche che già nel luglio scorso il Ministro dell’istruzione parlò della “necessità di attuare in Italia un più efficace sistema nazionale di ricerca pubblica per potenziarne il finanziamento in base ad una più vincolante programmazione annuale”; il tutto per agganciarsi ad Horizon 2020, il programma di aiuti comunitari alla ricerca in vigore dal 2014 e che, appunto, scadrà alla fine del 2020. Ecco perché ogni settimana spesa nel dibattito parlamentare si traduce in soldi persi per finanziare la ricerca.

Carriere e precari

Per quel che riguarda i contenuti della riforma, resta aperto il problema della ridefinizione delle carriere dei ricercatori degli Epr. Ed è su questo, da parte dei Sindacati e dell’opposizione, che si respira aria di scontro; la seconda nuvola nera, appunto. Il testo approvato dal Senato prevede la riorganizzazione delle carriere in base a quanto stabilito dalla Carta europea dei ricercatori e dello European framework for research careers; questi due documenti comunitari contengono i parametri per favorire la mobilità dei ricercatori con procedure di reclutamento uniformi, mentre in Italia ci sono ancora almeno tre disomogeneità tra ricercatori delle università, degli Epr e del privato. Intenzione del Governo sarebbe sbrogliare la matassa andando a regolare, per legge, i rapporti di lavoro; una scelta di metodo che ha fatto infuriare i sindacati. Con una nota congiunta del 28 maggio, Flc Cgil, Fir Cisl e Uil Rua hanno definito la scelta “anacronista” e “fallimentare”, per l’impossibilità di equiparare situazioni differenti fuori dai principi della contrattazione collettiva, che verrebbe di fatto bypassata. E sempre le organizzazioni sindacali hanno rincarato la dose definendo “illusorio che le difficoltà degli enti di ricerca si possano risolvere a costo zero e senza assunzioni”, come prevede il disegno di legge, “in un comparto che ha subito tagli fino al 20% delle risorse” e “accompagnato da un costante aumento del precariato come dimostrano i numeri: 18 mila dipendenti a tempo indeterminato e 12 mila precari”.

Lo scoglio costituzionale

Fatto sta che, se pure si trovasse la quadra sui tempi, sui metodi e sui contenuti, resterebbe il dubbio sulla legittimità costituzionale di uno dei principi della legge di delega; la terza nuvola nera, appunto. Il testo, per ora, affida all’Esecutivo la “semplificazione della normativa riguardante gli Epr e il suo coordinamento con le migliori pratiche internazionali” ed è su questo che i tecnici di Montecitorio hanno alzato il cartellino giallo: “il principio indicato”, scrivono, “appare eccessivamente generico”; in particolare, “visto che il principio si riferisce al coordinamento con le migliori pratiche internazionali, occorrerebbe chiarire se si intende richiamare il sistema di valutazione degli enti di ricerca, al fine di rendere comparabile la loro attività anche a livello internazionale”.


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