Retescuole-Mi-La riforma Moratti, ultima versione
Milano , 11/01/2003 La riforma Moratti, ultima versione. di Danilo Molinari Il 2002 si chiude con...
Milano , 11/01/2003
La riforma Moratti, ultima versione.
di Danilo Molinari
Il 2002 si chiude con un bilancio pesante per la scuola italiana. Da quando si è insediata, la maggioranza di centrodestra ha condotto una serie di attacchi all'istruzione pubblica. La politica centrata sui tagli e le iniziative di "controriforma" mirano a distruggere la scuola pubblica a favore di quella privata. Mirano inoltre a riportare la scuola italiana agli anni Cinquanta, a quando cioè solo i figli della borghesia proseguivano negli studi e ai proletari era riservato l'avviamento professionale o direttamente il mondo del lavoro.
Il mese di dicembre ha visto un'accelerazione di questa politica. La Finanziaria approvata dal Parlamento conferma e appesantisce i tagli all'istruzione pubblica previsti da quella precedente: riduce servizi essenziali per studenti e famiglie (progetti, sostegno, ecc.); taglia gli organici del personale docente e ATA e ne aumenta mansioni e carichi di lavoro; prevede una detrazione d'imposta per le famiglie che mandano i figli alle private; non stanzia risorse adeguate per un'edilizia scolastica a rischio. La riforma Moratti approda alla Camera dopo che il Senato ha licenziato un testo, se possibile, peggiore di quello originario. La devolution affronta il suo iter parlamentare e sarà uno degli argomenti più spinosi nell'agenda politica a partire da gennaio.
I primi quattro mesi del nuovo anno scolastico sono trascorsi, tutto sommato, in maniera abbastanza tranquilla, nonostante le polemiche di inizio anno per le mancate assunzioni e i tagli aggiuntivi, e nonostante gli scioperi generali del 14 e del 18 ottobre. Il fermento della primavera scorsa contro la Moratti lasciava presagire un esito ben diverso, invece la legge delega è passata in Senato il 13 novembre scorso senza che si producessero significative mobilitazioni: non c'è stato il conclamato sciopero generale della scuola promesso dalla CGIL, sono continuate ma molto sporadiche le iniziative di coordinamenti e reti sorti spontaneamente. Lo sciopero contro la riforma del sindacalismo di base del 6 dicembre è passato senza molti clamori.
Nell'ultimo mese però, a partire dalle autogestioni e dalle occupazioni studentesche che hanno organizzato dibattiti e assemblee sulla riforma Moratti, ai pronunciamenti di collegi docenti e consigli di istituto di alcune scuole contro le sperimentazioni o il testo stesso della legge delega di riforma, il movimento sta ripartendo e mira nei primi mesi del 2003 a coinvolgere l'intera società civile in una mobilitazione dal basso in opposizione alla riforma Moratti.
Queste pagine intendono fornire uno strumento conoscitivo utile per questa battaglia, ripercorrendo le vicende della riforma Moratti, analizzandone i contenuti principali, le novità introdotte dal Senato e le loro implicazioni.
Il percorso della riforma
Il 28 novembre 2001 vedevano la luce i due tomi del "Documento Bertagna", ovvero il "Rapporto finale del Gruppo Ristretto di Lavoro costituito con DM 18 luglio 2001, n.672", rispettivamente di 81 e 108 pagine, che contengono l'analisi del sistema educativo e la proposta di riforma elaborata dal centrodestra. A questo lavoro, redatto da una commissione di studiosi vicini alla maggioranza, ha fatto seguito la "Sintesi dei lavori e Raccomandazioni per l'attuazione della Riforma" del 14 dicembre 2002, che ha riassunto in una trentina di pagine e in parte modificato il lavoro precedente della Commissione Bertagna. Sulla base di questi documenti si è tenuta all'EUR nei giorni 19 e 20 dicembre la kermesse degli "Stati generali dell'Istruzione", dal titolo "Punto e a capo. Una scuola per crescere". Il ministero, sulle pagine del suo sito (www.istruzione.it), sintetizza così l'evento: "All'ordine del giorno la proposta del Gruppo di Lavoro, presieduto dal professor Giuseppe Bertagna, che contiene ipotesi di revisione della legge 30/2000 per la riforma dell'ordinamento scolastico. Studenti e genitori, insegnanti e dirigenti scolastici sono chiamati a discuterle e a esprimersi su quali possano essere le strade da percorrere per modernizzare la scuola italiana e portarla al livello europeo".
Il ministero non dice chi sono quegli studenti e quei genitori, quei docenti e quei dirigenti scolastici chiamati a discutere. è certo però che il dissenso non trova spazio nel palazzo dei Congressi dell'EUR, che viene circondato da migliaia di studenti e manifestanti contrari all'iniziativa.
Alla fine, i corposi documenti della Commissione Bertagna si traducono in uno scarno disegno di legge delega, il DDL 1306, di soli 7 articoli, licenziato dal Consiglio dei Ministri il 14 marzo 2002. Il testo, arenatosi per sette mesi in VII Commissione del Senato, è stato approvato con qualche modifica il 2 ottobre 2002 e trasmesso all'aula. In solo una decina di giorni, il Senato, con 124 voti a favore 90 contrari e 3 astenuti, ha varato il 13 novembre 2002 il nuovo testo del Disegno di Legge AS 1306 ("Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull'istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e di formazione professionale"), che ora dovrà passare alla Camera. Insieme ad esso sono stati approvati degli odg. che richiedono gli stanziamenti di 125 milioni di euro per finanziare le iscrizioni anticipate alla scuola dell'infanzia e primaria, e di 10.283 milioni di euro per finanziare l'intera riforma!
Nel frattempo la riforma è stata surrettiziamente applicata prima ancora che la legge sia approvata. A partire da quest'anno scolastico sono state introdotte alcune iniziative riguardanti l'assolvimento dell'obbligo nei centri di formazione professionale e l'avvio su scala nazionale di una minisperimentazione che interessa la scuola dell'infanzia e quella elementare.
Il meccanismo della delega
Lasciamo da parte la questione delle risorse economiche per analizzare i contenuti della legge e le modifiche apportate al testo originario. Ci limitiamo ad osservare che nella particolare fase economico-finanziaria in cui versano le casse dello stato la cifra richiesta (20.000 miliardi di vecchie lire) non può avere soddisfazione, come ha più volte dichiarato lo stesso Tremonti. Quindi o la riforma non si attua, oppure - e sarebbe la cosa peggiore - si attua senza soldi, con le conseguenti ricadute sul piano qualitativo di un provvedimento intrinsecamente reazionario. Inoltre, se passasse la devolution, che dà facoltà alle regioni di attivare leggi autonome in materia di gestione e organizzazione scolastica, anche la riforma Moratti andrebbe rivista in diverse sue parti.
Come i precedenti testi del Consiglio dei Ministri (14 marzo) e della VII Commissione (2 ottobre) anche quello del Senato si compone di 7 articoli. In aula non c'è stata praticamente discussione, e la maggioranza ha fatto quadrato bocciando sistematicamente le centinaia di emendamenti proposti dall'opposizione. Sono passate solo 11 modifiche al testo licenziato dalla VII Commissione, proposte da senatori del centrodestra.
La base su cui poggia il meccanismo dell'intera legge è l'art. 1 ("Delega in materia di norme generali sull'istruzione e di livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e di formazione professionale"), pressoché identico al testo originario. Esso affida al governo, senza alcuna interferenza parlamentare o dibattito aperto alla collettività, il compito di emanare entro due anni dall'entrata in vigore della legge (presumibilmente entro il 2005) una serie di decreti e regolamenti che daranno corpo e sostanza alla nuova scuola. Inoltre prevede che il ministero dell'istruzione predisponga, entro tre mesi dall'entrata in vigore della legge, un piano di interventi finanziari da sottoporre all'approvazione del governo per la realizzazione dei vari ambiti della riforma: attuazione degli ordinamenti, formazione e valorizzazione professionale di insegnanti e ATA, tecnologie multimediali, sistema nazionale di valutazione, edilizia, ecc.
I provvedimenti governativi costituiranno in pratica la vera e propria riforma, mentre la legge quadro, peraltro con procedura blindata, si limita a tracciarne le linee generali. Per decreto infatti sarà disciplinato il nuovo sistema educativo e i suoi cicli (art. 2), la valutazione del sistema scolastico e degli allievi (art. 3), l'alternanza scuola-lavoro (art. 4), la formazione e il reclutamento degli insegnanti (art. 5).
Attraverso regolamenti sarà determinato il nucleo essenziale dei piani di studio (contenuti e obiettivi disciplinari, orari, ecc.), le modalità di valutazione dei crediti scolastici, i requisiti formativi minimi per conseguire una qualifica professionali o passare dal sistema della formazione professionale a quello dell'istruzione.
I cicli e il sistema duale
Il fulcro della riforma è l'art. 2: "Sistema educativo di istruzione e di formazione". Definisce la struttura dei cicli e introduce il sistema duale di sapore classista. Il governo giocando con le parole si fa vanto di "assicurare a tutti il diritto all'istruzione e alla formazione per almeno dodici anni". In realtà riduce di un anno l'obbligo scolastico (da nove a otto), anzi abolisce il concetto stesso, così come la legge del 1999 che lo aveva elevato a 15 anni compiuti (art. 7, comma 11). Ciò significa disimpegno per lo stato e le famiglie: trasformando l'obbligo scolastico in diritto-dovere "legislativamente sanzionato", in linea col principio di sussidiarietà, si deresponsabilizza lo stato dall'essere il soggetto principale e più titolato per assicurarne la fruizione e l'assolvimento da parte dei cittadini.
Il sistema scolastico si articola nella scuola dell'infanzia (durata 3 anni), nel primo ciclo (durata 8 anni) e nel secondo ciclo (durata 4 o 5 anni). La scuola dell'infanzia è fuori dal periodo dell'obbligo (continuiamo a usare questo termine per comodità, anche se impropriamente) e si può anticipare l'accesso a due anni e mezzo.
Il primo ciclo è composto dalla scuola primaria (l'odierna elementare, durata 5 anni) e dalla scuola secondaria di primo grado (le attuali medie, durata 3 anni) e si conclude con un esame di stato. Al suo interno di struttura in bienni secondo il modello 1+2+2 e 2+1: non c'è più l'esame di 5^ elementare, ma una valutazione ogni due anni per stabilire se l'alunno può passare al biennio successivo.
Il primo anno del ciclo, a cui si può accedere a cinque anni e mezzo, è di raccordo con la scuola dell'infanzia ed è finalizzato ad acquisire la strumentalità di base (leggere, scrivere, ecc.); l'ultimo "assicura l'orientamento ed il raccordo con il secondo ciclo", in altre parole anticipa di fatto a 12 anni la scelta sul percorso successivo.
Il secondo ciclo "è costituito dal sistema dei licei e dal sistema dell'istruzione e della formazione professionale". Il primo, di competenza statale, dura 5 anni e comprende artistico, classico, scientifico, economico, linguistico, musicale, tecnologico, scienze umane; si conclude con un esame di stato che dà accesso all'università, all'accademia di belle arti, al conservatorio musicale. Il secondo, di competenza regionale, dura "almeno" 4 anni e dà accesso al mondo del lavoro o alla formazione tecnica superiore, la cui gestione deve ancora essere riorganizzata e disciplinata. è incerto il destino dell'attuale istruzione tecnica: si può prevedere che alcuni istituti tecnici saranno assorbiti nel sistema dei licei, altri andranno, insieme agli istituti professionali, nel segmento della formazione professionale regionale.
Ancora di recente, la Moratti stessa, all'apertura del convegno "Il profilo dello studente al termine del secondo ciclo di istruzione e formazione" (Roma, 19 dicembre 2002), ha assicurato l'unitarietà del secondo ciclo "perché siamo convinti che il sistema di istruzione e formazione debba consistere di due percorsi comunicanti che, ancorché distinti, abbiano obiettivi e valori di riferimento comuni. Abbiamo voluto in tal modo riconoscere in concreto la legittimità, anzi, la necessità di istituire nell'ordinamento una pluralità di percorsi, di tempi, di contenuti, di modalità, di metodologie di insegnamento e di apprendimento, ed anche di sedi in cui potrà svolgersi l'attività formativa. Questa scelta mette al centro lo studente, i suoi progetti, le sue doti e capacità, l'autonomia delle sue scelte e le sue responsabilità".
Queste argomentazioni non convincono per diversi motivi. Un concetto forte di questa riforma è quello della "personalizzazione": personalizzazione dei piani di studio, dei percorsi formativi, ecc., da cui la costituzione di "gruppi di livello", "gruppi elettivi", ecc. Tutto ciò fin dai primi anni di scuola (vedi "Decreto di attuazione dei Progetto Nazionale di Sperimentazione" di materne ed elementari, in www.istruzione.it), e in base alle attitudini, alle capacità e agli interessi degli allievi: cioè in base a una pretesa predisposizione naturale agli studi. Dal momento che le condizioni materiali e sociali determinano in maniera decisiva queste pseudo-attitudini naturali è fin troppo chiaro che questa "filosofia" mira a inquadrare gli alunni in base alla loro estrazione sociale per indirizzarli - con il supporto delle famiglie - in una determinata direzione culturale e professionale. Dicevamo del "supporto delle famiglie": sono proprio loro che consapevolmente o meno fanno maturare nei bambini e nei ragazzi certe scelte. Il figlio di un professionista o di un insegnante avrà vissuto in mezzo ai libri, li avrà ricevuti in dono, avrà visitato mostre e musei, sarà andato a teatro o quanto meno al cinema, avrà sentito parlare fin da piccolo di liceo e sarà "naturalmente" portato a pensare che quella sarà la sua scuola. Il figlio di un operaio o di un immigrato, in genere, non avrà avuto nulla di tutto ciò se non casualmente ed episodicamente; gli verrà fatto credere, perché i suoi stessi genitori lo credono, che il liceo è difficile, che lo studio stesso richiede fatica e impegno superiori alle sue forze, che forse lui non è in grado di affrontare un liceo, che costringe poi ad andare all'università, che costa molto ed è ancora più difficile del liceo. Il povero ragazzo si vedrà davanti lo spettro di un fallimento annunciato e sarà quindi "naturalmente" portato a ridurre le sue pretese culturali o addirittura a lasciare ad altri la scelta sul suo destino. Sono le statistiche ufficiali e le indagini sociologiche che ci descrivono questa realtà.
Altro motivo di perplessità è che aldilà della diversità dei soggetti che gestiscono i due segmenti (stato da una parte, regioni dall'altra, sempre che non intervenga la devolution che prevede la competenza delle regioni sull'intero sistema scolastico), è molto difficile che uno studente possa passare dalla formazione professionale al sistema dei licei. La Moratti pensa forse a un sistema analogo a quello dei Salesiani, i quali gestiscono scuole di diverso ordine e grado, tra cui i centri di formazione professionale e gli istituti tecnici. Questi diversi tipi possono trovarsi all'interno di uno stesso edificio o in strutture tra loro collegate. Gli studenti iscritti al CFP sono generalmente di estrazione proletaria, e sono stati educati ad attendersi dalla scuola una preparazione atta all'inserimento nel mondo del lavoro. è possibile per alcuni di loro, mentre acquisiscono una qualifica professionale, frequentare all'interno del percorso e/o oltre l'orario settimanale lezioni di italiano, fisica, chimica, ecc. per sostenere un esame integrativo che consenta l'ammissione al triennio dell'istituto tecnico, spesso serale.
L'alternanza scuola-lavoro
In un CFP salesiano gli studenti fanno 4 ore di cultura generale, matematica, disegno, ecc. la mattina e nel pomeriggio altre 4 ore di laboratorio, dove imparano un mestiere. Il sistema dell'alternanza scuola-lavoro previsto dalla riforma potrebbe mirare a questo modello. Un approccio diretto con il mondo del lavoro, a determinate garanzie, non è di per sé un male, basta che non sostituisca lo studio e la cultura e che sia momento di effettiva conoscenza per lo studente e non piuttosto sistema di formazione e reclutamento per le aziende o peggio ancora utilizzo di manovalanza non pagata. Basti pensare che i laboratori salesiani producono per commesse esterne e i ragazzi sono impiegati in queste lavorazioni, senza alcuna retribuzione; e che l'Ente Fiera di Milano impiega stagiste degli istituti linguistici da collocare nei box informativi delle varie manifestazioni, in questo modo riduce i costi del lavoro perché non assume ma utilizza studentesse non retribuite con la scusa di procurare loro un'esperienza di lavoro utile in futuro.
Il nuovo testo introduce un'aggiunta che potrebbe far pensare al modello salesiano sopra descritto. Dopo aver ribadito che è possibile "svolgere l'intera formazione dai 15 ai 18 anni attraverso l'alternanza di periodi di studio e di lavoro [...] sulla base di convenzioni con imprese" e altri soggetti (associazioni di industriali, camere di commercio, enti pubblici e privati, agenzie no-profit, ecc.), i quali riceveranno dallo stato incentivi per "accogliere studenti per periodi di tirocinio che non costituiscono rapporto individuale di lavoro" (quindi senza retribuzione), così dice: "le istituzioni scolastiche, nell'ambito dell'alternanza scuola lavoro, possono collegarsi con il sistema dell'istruzione e formazione professionale ed assicurare, a domanda degli interessati e d'intesa con le Regioni, la frequenza negli istituti di istruzione e formazione professionale di corsi integrati coerenti con il profilo educativo, culturale e professionale e realizzati con il concorso degli operatori di ambedue i sistemi". Il modello del "sistema integrato" non è una novità di questa maggioranza, ma era già stato pensato da Berlinguer. Novità di questo governo sono le intese MIUR-Regioni sulla formazione professionale, e che hanno indotto la CGIL Lombardia a ricorrere con successo al TAR.
Come per tutto il resto anche per questa materia le indicazioni saranno chiarite solo da un decreto successivo. Tanto che al convegno "Job-Orienta" svoltosi a Verona dal 21 al 23 novembre scorso il dirigente del dipartimento Istruzione del MIUR, Pasquale Capo, nella relazione "Istituzioni formative e imprese: quale alternanza", non è stato in grado di fornire anticipazioni univoche su quelli che saranno i contenuti della norma (vedi Tuttoscuolanews, nn. 77 e 78).
La valutazione e la formazione dei docenti
L'art. 3, "Valutazione degli apprendimenti e della qualità del sistema educativo di istruzione e di formazione", detta le linee generali della valutazione. Essa è di competenza dei docenti e di un "Istituto nazionale di valutazione".
L'istituto di valutazione "effettua verifiche periodiche e sistematiche sulle conoscenze e abilità degli studenti" e predispone e gestisce alcune delle prove dell'esame di stato conclusivo dei cicli. Ai docenti è affidata la redazione del portfolio, cioè un libretto che accompagna lo studente per tutto l'arco della sua vita scolastica in cui sono registrate le competenze acquisite, e la valutazione biennale degli studenti "ai fini del passaggio al periodo successivo".
Si intende conferire alla valutazione, o meglio alla promozione e alla bocciatura, i connotati di un automatismo. Ciò renderà possibile bocciare bambini già a partire dalla terza elementare come ha implicitamente ammesso la sottosegretaria Valentina Aprea, che a un convegno della Gilda del gennaio 2001 ha affermato: "I docenti avranno la possibilità ogni due anni di promuovere o di fermare gli studenti". Questo rendendo più rigido il sistema dei "debiti formativi" che non potranno più essere trascinati per svariati anni ma dovranno essere saldati in un biennio (vedi tra gli altri il Corriere della Sera del 19 gennaio 2001). Forse non sarà così, ma il rischio c'è; le norme di attuazione di questa come di tutte le altre materie della riforma sono demandate a successivi decreti. Va ricordato comunque che il documento Bertagna, ispiratore della riforma, prevede il passaggio automatico da un anno all'altro del biennio, anche in presenza di valutazioni negative; se però al termine del secondo anno restano anche solo due dei vecchi debiti lo studente non è ammesso al biennio successivo; se invece le materie in cui non va bene sono altre, il passaggio è possibile.
Ciliegina sulla torta è la valutazione del comportamento, che non solo potrebbe reintrodurre il famigerato 7 in condotta, ma addirittura controllare e sanzionare certi certi costumi e certi modi di fare e di pensare non ispirati a sani principi. Forse stiamo esagerando, ma che vorrà mai dire la frase aggiunta all'art. 2, c. 1B, secondo cui "sono promossi il conseguimento di una formazione spirituale e morale anche ispirata ai principi della Costituzione"? Si intende dire che il conseguimento della formazione spirituale e morale sarà oggetto di valutazione? E quali sarebbero questi altri principi più importanti di quelli costituzionali? Si ispira ad essi l'appello alla castità per prevenire malattie come l'AIDS contenuto in un manualetto per gli studenti preparato dal ministero? Sarà possibile per uno studente comportarsi disinvoltamente o parlare liberamente ad esempio di sesso? Chi stabilisce e come se tale formazione spirituale e morale è stata conseguita?
E qui si apre un'altra questione, quella della affidabilità degli insegnanti. Sono in grado i docenti italiani di impartire e valutare una educazione ispirata a sani principi? Il Secolo d'Italia, organo di AN, ritiene di no e chiede l'attenzione del governo e in particolare del ministro dell'istruzione sugli insegnanti che, essendo "disgraziatamente in gran parte di matrice sessantottina sono assai poco adatti ad educare. Anzi, piuttosto, a diseducare".
La newletters Tuttoscuola (n. 80 del 9.12.02), da cui abbiamo tratto la citazione, così commenta: "Se le parole hanno un senso, la sortita del Secolo d'Italia potrebbe preludere ad una campagna per la rieducazione di massa degli insegnanti. Oppure, in alternativa, per una forte riduzione dell'orario: così si potrebbe licenziare un congruo numero di sessantottini".
Per quel che riguarda il reclutamento (che non sarà più per concorso) e la formazione dei docenti (sia iniziale che in servizio) sarà affidata alle università di concerto con le direzioni scolastiche regionali. Le università cureranno e gestiranno le lauree specialistiche, le ammissioni ai corsi, le attività di tirocinio, le funzioni di tutoraggio dei nuovi docenti e di coordinamento delle attività scolastiche (figure di sistema). Il nuovo testo prevede che "la formazione degli insegnanti della scuola secondaria di primo grado e del secondo ciclo" avvenga "con preminenti finalità di approfondimento disciplinare". Poco importa che il docente sappia insegnare, che sia aggiornato sulla didattica, sui bisogni degli alunni, le pratiche di socializzazione, le caratteristiche psicologiche e cognitive connesse all'età, ecc... i contenuti disciplinari anzitutto! Il Senato, che ha introdotto la modifica, ha voluto ribadirla impegnando il governo con un ordine del giorno in tal senso.
Il tempo scuola
L'alleggerimento dell'orario scolastico è l'ultimo aspetto della riforma che analizziamo. Già il documento Bertagna indicava in 25 ore settimanali il tempo scuola, ma la Moratti e il suo entourage di fronte alle critiche soprattutto di coloro che vedevano minacciato il tempo pieno e il tempo prolungato si erano affrettate a smentire tale evenienza. Il decreto della sperimentazione alle materne e alle elementari e soprattutto gli allegati, che contengono l'intero impianto del nuovo modello scolastico, fanno luce su ciò. Nella scuola primaria (elementari), "l'orario annuale obbligatorio delle lezioni, comprensivo della quota riservata alle Regioni, alle istituzioni scolastiche e all'insegnamento della Religione cattolica, è di 891 ore in prima classe (990 nel caso della formula "a tempo pieno") e di 990 ore nel primo e nel secondo biennio" Per quel che riguarda l'orario del "maestro prevalente", qui chiamato docente tutor o docente coordinatore, "fino al primo biennio, svolge attività in presenza con l'intero gruppo di allievi che gli è stato affidato per l'intero quinquennio, per un numero di ore che oscillano da 594 a 693 su 891 o 990 annuali" (vedi www.istruzione.it/news/2002/allegati/sperimentazione). E ancora "Il docente tutor del team assicura in ciascun gruppo-classe una presenza temporale settimanale indicativamente individuata tra le 18 e le 21 ore di insegnamento frontale". Poiché in un anno scolastico le settimane di lezione sono 33, ciò significa l'orario settimanale per gli alunni sarà di 27 ore o di 30 ore nel caso del "tempo pieno". Oggi tale tempo è di 40 ore, poiché anche l'orario mensa è ritenuto un momento significativo nel processo educativo. Con la riforma non sarà più così: il tempo mensa non sarà più considerato momento didattico e la sua cura sarà affidata ai collaboratori scolastici (la finanziaria 2003 già lo prevede), che avranno il compito di sorvegliare centinaia di bimbi urlanti a tavola e negli spazi della ricreazione.
Analogo discorso va fatto per le medie, per le quali il ministero sta definendo discipline (in aumento) e modelli organizzativi. Il tempo scuola obbligatorio sarà di circa 900 ore annue (27 settimanali) con una possibile aggiunta di circa 200 ore facoltative (6 settimanali) per attività di recupero o di sviluppo d'intesa con alunni e famiglie. Forse saranno anche a carico delle famiglie; comunque, dato il loro carattere facoltativo, saranno contraddistinte dalla precarietà negli impieghi di personale docente.