In questo tempo di non scuola sta accadendo un po’ di tutto, ma una cosa è certa: gran parte degli insegnanti sta provando in qualche modo a reagire a una situazione a cui nessuno era preparato, ponendosi nuove domande e mettendosi in gioco, in numerosi casi con impegno e generosità.
Nel procedere a tentoni si va da un estremo all’altro. In un paese del viterbese alcuni insegnanti delle medie tengono ogni mattina i loro allievi diverse ore davanti al computer con le lezioni a distanza e assegnano poi una gran quantità di compiti per il pomeriggio. Altri docenti segnalano numerosi casi in cui ragazze e ragazzi, lasciati a se stessi, trascorrono intere nottate incollati agli schermi tra giochi, chat e serie tv e gli insegnanti, quando provano a interagire con loro sul web, li trovano affaticati anche a mezzogiorno.
Allo sconcerto del tutti a casa, accolto inizialmente da bambine, bambini, ragazze e ragazzi come una stupefacente novità, sono rapidamente subentrati avvilimenti e sperdimenti. I genitori spesso faticano nell’aiutare i propri figli a darsi un qualche ordine e a stabilire priorità, ed è certo che il coronavirus sta aumentando a dismisura le discriminazioni di classe. Lo denuncia con forza la scrittrice Valeria Parrella, ricordando che “i ragazzini poveri non hanno il pc, i genitori non possono ricaricare i giga, né uscire a far fotocopie. Nelle case popolari a sei in due stanze senza un balcone ci si abbrutisce”. I dati Istat del 2019 ci dicono che solo il 76,1 per cento delle famiglie dispone di un accesso a internet. Dunque è verosimile che un quarto degli studenti non abbia la possibilità di partecipare a momenti di didattica a distanza con strumenti idonei.
La giusta misura nei compiti
In questo quadro di grandi difficoltà e disuguaglianze crescenti, come mantenere un contatto tra allievi e insegnanti? Bambine e bambini hanno atteso e accolto con sollievo e contentezza l’essere pensati dalle loro maestre o maestri, che li hanno raggiunti in casa nei modi più diversi. In molti casi i famigerati gruppi WhatsApp dei genitori, spesso invasivi, ansiogeni o presuntuosamente polemici, si sono trasformati in scialuppe di salvataggio: hanno permesso ai più piccoli di sperimentare che il legame con la scuola, che rappresenta tanta parte della loro vita affettiva e relazionale, non era spezzato.
La difficoltà sta nel trovare la misura giusta. Una mamma di Milano lamenta che a sua figlia, in prima elementare, la settimana scorsa sono state date da compilare quaranta schede. E forse anche a questi eccessi pensava un dirigente particolarmente sensibile di quella città che, rivolgendosi ai docenti, ha proposto di orientare il loro lavoro a distanza, tenendo a mente cinque parole: leggerezza, gradualità, cooperazione, creatività e benessere, inteso come capacità di alimentare allegria e buonumore. Dobbiamo essere consapevoli che ciò che viene paracadutato nelle case dovrebbe poter essere svolto in autonomia, per non trasformare ulteriormente il ruolo dei genitori, riempiendo le case di tensioni.
La priorità sta nell’individuare strade percorribili per dare senso a questa segregazione forzata
Sui compiti della scuola oggi si confrontano opinioni diverse. Insegnare, la rivista del Centro iniziativa democratica insegnanti (Cidi) ha stilato un documento fortemente polemico intitolato Per ridurre i danni della mancata presenza, in cui denuncia il marketing istituzionale che punta a un’efficacia “a prescindere” della didattica digitale, la subordinazione delle istituzioni pubbliche alle piattaforme del capitalismo della sorveglianza, l’accentuazione delle disuguaglianze. E per sostanziare questa denuncia ha promosso da Torino un utile monitoraggio indipendente della “scuola a distanza”.
Eppure, in questo momento, forse la priorità non sta tanto nel denunciare piattaforme di grandi multinazionali in uso da anni, quanto nell’individuare strade percorribili per dare senso a questa segregazione forzata. Nei bambini e negli adolescenti comporta non solo un apprendimento più lento, ma anche una ben più profonda e pericolosa crisi intima e relazionale, destinata ad approfondirsi nei prossimi mesi, visto che verosimilmente la scuola resterà chiusa.
La casa, il corpo, le piccole resistenze
Non credo sia un caso che un gruppo di insegnanti del Movimento di cooperazione educativa (Mce), nel cercare di “reinventarsi in una relazione educativa solo a distanza”, proponga di partire da La storia di Mina, un libro di David Almond di cui consiglio la lettura a tutti, perché racconta i mirabolanti esercizi inventati da una bambina capace di imparare da tutto e di tutto, pur non frequentando la scuola che l’ha espulsa. Nelle pagine ironiche e sottili di questo romanzo ci sono spunti che un gruppo di ricerca dell’Mce ripropone e arricchisce, partendo dalla casa e dal corpo. La casa perché, pur essendo luogo obbligatorio e coatto, può essere esplorata con nuovi occhi, come fosse un continente esotico in cui si è precipitati. Il corpo perché, pur essendo il primo strumento di conoscenza, è oggi il grande rimosso, costretto e vilipeso com’è tra mura e schermi che lo disattivano.
In una lezione a distanza, su una piattaforma che sullo schermo metteva insieme i volti dei ragazzi accanto a quello del docente che parlava, a un tratto una ragazza ha cominciato a volteggiare nella stanza improvvisando un ballo scatenato, suscitando l’ilarità dei compagni. Si era dimenticata di spegnere la telecamera. Di fronte a uno schermo simile un bambino, in terza elementare, ha chiesto ingenuamente a sua mamma se poteva abbassare il volume dell’altoparlante della maestra per chiacchierare con il compagno, come faceva di nascosto in classe.
Sarebbe interessante ragionare con sguardo antropologico sul resistere di comportamenti di sopravvivenza scolastica in un contesto completamente stravolto. Ci aiuterebbe a osservare con sguardo laico e curioso, con un po’ di distacco e ironia, la commedia umana che emerge dal nostro contraddittorio rapporto con le macchine in un’epoca di cattività.
Una scuola per tutti
Curiosamente, dopo anni in cui ci siamo ammorbati con presunti e artificiosi “compiti di realtà” da inventare e moltiplicare per valutare le competenze degli allievi, ci troviamo di fronte a un gigantesco compito di realtà. Noi docenti siamo infatti chiamati a sperimentare se sia possibile costruire nell’emergenza una scuola per tutti, che provi a non discriminare nessuno. Con un’ulteriore difficoltà, perché un uso poco esperto delle piattaforme tende a privilegiare una didattica tradizionale fondata su lezioni frontali, mentre per costruire una didattica a distanza davvero interattiva c’è bisogno di saper intrecciare con creatività competenze tecniche ed esperienza pedagogica, che sono abilità non comuni.
La grande differenza con altre situazioni di emergenza, come quelle vissute dopo i terremoti di qualche anno fa in Italia, è che quando le case crollano o diventano inabitabili si viene a creare forzatamente una comunità a partire da una straordinaria vicinanza – difficile da vivere, ma foriera di mescolanze e collaborazioni inedite. Ora, invece, sono proprio le case in cui dobbiamo restare rintanati che evidenziano quanto la discriminazione sociale nasca proprio nel luogo dove ci si trova o si è costretti ad abitare.
E questo è il principale e più difficile nodo da sciogliere. È infatti evidente che si tratta di affrontare un tempo lungo di non scuola, perché nessuna educazione a distanza potrà mai supplire la complessa e ricca rete di relazioni significative che si creano nelle classi in presenza. L’apertura che offre la scuola, quando riesce nel suo compito, permette a bambini e ragazzi di compiere viaggi siderali. Cosa c’è di più lontano da noi, infatti, di un australopiteco o dell’espansione dell’universo, di un teorema di Talete o di un sonetto di Petrarca? Eppure quella rottura di lontananze, che fa sentire vicini a noi i personaggi di un romanzo o la misteriosa irrazionalità del pi greco, nasce dalla vicinanza di chi ci propone e ci fa dialogare con quei manufatti culturali, da quel corpo a corpo necessario che in una relazione attiva rende viva la cultura.
Provare a mantenere il senso di tutto questo a distanza è una sfida ai limiti dell’impossibile. E, anche se siamo costretti ad attrezzarci per sperimentarla, dobbiamo guardarci bene dal trattarla come miraggio di una futura scuola innovativa e dematerializzata. Ma siamo qui e questa è la sfida che abbiamo di fronte, in questo particolarissimo esercizio provvisorio del nostro essere educatori.
Il 21 febbraio, il giorno prima della chiusura delle scuole in Lombardia, la Casa del sole di Milano – una primaria nota per il suo impegno nell’inclusione dei figli di famiglie immigrate – aveva organizzato una giornata dedicata alle lingue madri, aperta anche ad altre scuole. Nel parco Trotter bambine e bambini hanno proposto a compagni e genitori diversi laboratori, costruiti a partire da un’ampia ricerca sulle “parole gentili” presenti nelle 25 lingue che abitano quella scuola.
Ora le insegnanti raccontano che stanno sperimentando vari modi per mantenere viva la relazione con gli alunni e comunicare con le famiglie utilizzando anche le loro lingue. Riflettono sul grande valore educativo di permettere a bambine e bambini di studiare discipline come la matematica e le scienze nella loro lingua madre. E poi hanno segnalato alle colleghe di altre scuole siti che rendono possibile l’accesso a materiali interessanti, come quelli prodotti dalla Khan academy, nata una quindicina di anni fa dal bisogno di offrire un sostegno a distanza all’apprendimento della matematica, sperimentato tra cugini bengalesi che abitavano in continenti diversi. Proposte come questa si stanno raccogliendo nel sito Tavolo Saltamuri e sono particolarmente importanti in questo momento, in cui i problemi degli immigrati a scuola sembrano essere del tutto oscurati.
Rifiutando con nettezza ogni pretesa di trasportare tempi e modi della scuola così com’è dentro le case di bambine, bambini e adolescenti – compresa la pericolosa presunzione di avvilire questo delicato tentativo di relazione a distanza con assurde valutazioni –, c’è un esperimento sociale necessario da esplorare e una sfida a cui non possiamo sottrarci: tentare di far sentire la scuola vicina nonostante tutto e provare a mostrare quanto la cultura, intesa nel senso più ampio, possa essere terreno fertile di crescita e cura delle relazioni reciproche in tempi di sofferenza e di crisi. Perché questo tempo lungo e sospeso della pandemia si trasformi in un’esperienza piena di senso abbiamo infatti bisogno di elaborare pensieri, operare connessioni e trovare parole capaci di farci intendere meglio ciò che sentiamo.